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Privazione della funzione genitoriale, SC: “E’ maltrattamento in famiglia”

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Con la pronuncia n. 21133/2019, la Cassazione – chiamata a esaminare la responsabilità penale di alcuni uomini che avevano posto in essere una serie di condotte vessatorie ai danni della vedova di un loro caro congiunto – ha ricompreso all'interno del reato di maltrattamenti in famiglia anche taluni episodi diretti a limitare e mortificare la funzione genitoriale della donna.

Si è difatti specificato che integra il delitto maltrattamenti in famiglia anche la sostanziale privazione della funzione genitoriale, realizzata mediante l'avocazione delle scelte economiche, organizzative ed educative relative ai figli minori e lo svilimento, ai loro occhi, della figura morale della mamma.

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti dei familiari acquisiti di una donna – rimasta vedova – per aver posto in essere, dopo la morte del loro congiunto, condotte vessatorie e mortificanti rispetto alla libertà di autodeterminazione della donna ed all'esercizio della potestà genitoriale sulle figlie, oltre che vere e proprie limitazioni della libertà personale.

In particolare, oltre ad essere limitata nelle uscite ed in talune scelte relative all'adempimento di più vari atti quotidiani, la donna era stata privata della possibilità di svolgere la propria funzione di madre e la sua figura veniva del tutto svalutata agli occhi delle figlie: non poteva accompagnare a scuola le piccole, né scegliere il loro vestiario e corredo scolastico, né prendere autonomamente decisioni organizzative minime che le riguardavano.

Per tali fatti,sia la Corte di Assise di Palmi che Corte di Assise di appello di Reggio Calabria, condannavano i familiari per il reato di cui all'art. 572 c.p.

Ricorrendo in Cassazione, gli imputati si dolevano per l'erronea applicazione della legge penale, evidenziando come alcune condotte contestate non configurassero il reato di maltrattamenti, essendo per lo più dei normali episodi di disaccordo e di scontro privi della benché minima direzione e valenza maltrattante.

A detta dei ricorrenti, infatti, l'ingerenza nell'educazione delle figlie erano dovute non già alla volontà di esautorare la funzione genitoriale della mamma., ma di rendere più felice l'esistenza delle sfortunate bambine, anche tenuto conto delle precarie condizioni psico-fisiche della loro madre; i dissidi ed i conflitti dovevano, quindi, ritenersi del tutto fisiologici in un contesto familiare "allargato".

La Cassazione non condivide le tesi difensive degli imputati.

In punto di diritto la Corte premette che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 572 c.p. consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita. 

 Possono essere ricondotti nella fattispecie di reato anche quelle condotte prive, di per sé considerate, di rilevanza penale, essendo pacifico l'orientamento giurisprudenziale secondo cui delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sé, non costituiscono reato, quali – ad esempio – le ingerenti intromissioni sull'educazione e l'organizzazione della vita delle bambine.

Con specifico riferimento al caso di specie, la Corte di Appello, con una ricostruzione in fatto del tutto razionale e ineccepibile alla luce degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, ha evidenziato come l'essenza dei maltrattamenti consisteva nella deprivazione della capacità di autodeterminazione della persona offesa, sia nelle scelte che concernevano la sua persona, sia in quelle relative alla cura ed all'educazione delle proprie figlie.

La Corte di merito ha correttamente ravvisato, nel complesso delle condotte poste in essere e nella loro sistematica reiterazione per un arco di tempo prolungato, la comune direzione dell'agire degli imputati e l'effetto maltrattante nei confronti della vittima.

In conclusione la Cassazione rigetta il ricorso.

 

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