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Espressioni offensive e sconvenienti utilizzate nel processo civile: limiti e conseguenze

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Inquadramento normativo: Art. 89 c.p.c.

Espressioni sconvenienti od offensive usate nel corso del processo civile: Nel corso del processo civile, le parti e i loro difensori non possono usare espressioni offensive e sconvenienti né nei propri scritti difensivi, né nei discorsi pronunciati dinanzi al giudice.

Quando le espressioni utilizzate dalle parti possono definirsi sconvenienti od offensive? Le espressioni utilizzate dalle parti e dai loro difensori affinché non siano sconvenienti od offensive:

  • non devono eccedere i limiti di un civile esercizio del diritto di difesa e di critica, con l'ovvia conseguenza che saranno considerate sconvenienti od offensive le espressioni «caratterizzate dall'intento di offendere la controparte e i suoi difensori». In tali ipotesi infatti, le espressioni in questione costituiranno un abuso del diritto di difesa (Tribunale Rovigo, sentenza 28 marzo 2019);
  • non devono essere dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo. In buona sostanza, si è ritenuto che è ben possibile che l'esercizio del diritto di difesa possa investire il profilo della moralità della controparte. In questi casi, tuttavia, occorre non andare oltre le esigenze difensive o la scarsa attendibilità delle affermazioni di quest'ultima. (Cassazione civile sez. lav., n.21031/2016, richiamata da Corte d'Appello Campobasso, sentenza 18 aprile 2019).

Alla luce di quanto sopra detto, pertanto, non possono essere qualificate offensive dell'altrui reputazione le espressioni che:

  • sono utilizzate in modo graffiante senza, però, ledere la dignità umana e professionale dell'avversario (Cassazione civile sez. lav., n.21031/2016, richiamata da Corte d'Appello Campobasso, sentenza 18 aprile 2019);
  •  pur essendo colorite ed ironiche, non rivelano alcun intento offensivo nei confronti della controparte e sono semplicemente preordinate a dimostrare la fondatezza delle proprie tesi e ad apportare elementi utili ai fini della decisione (Tribunale Rovigo, sentenza 28 marzo 2019);
  • dirette a "carpire la buona fede del giudice traendolo in errore", appaiono dettate da un'enfasi difensiva forse troppo accentuata, senza sottendere alcun passionale e incomposto intento dispregiativo (Corte d'Appello Campobasso, sentenza 18 aprile 2019);
  • utilizzando il verbo "contrabbandare", con il significato figurato "far passare qualcosa per ciò che non è", hanno l'intento di riferirsi semplicemente ad «una tesi della controparte per rafforzare l'assunto della scarsa attendibilità di tale tesi, senza assumere alcuna valenza offensiva e tanto meno sconveniente nei confronti della controparte stessa e senza, quindi, integrare un abuso del diritto di difesa della parte» (Cass. civ. Sez. lavoro, n. 21031/2016).

Uso di espressioni sconvenienti od offensive e conseguenze: Quando tali espressioni sono usate, eccedendo i limiti innanzi indicati, il giudice, in ogni stato della istruzione, può disporre con ordinanza la loro cancellazione, «e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l'oggetto della causa». È stato ritenuto che l'obbligo di risarcimento del danno, in queste ipotesi, sussiste solo quando dette espressioni sono del tutto avulse dall'oggetto della lite, «ma non anche quando, pur non essendo strettamente necessarie rispetto alle esigenze difensive, presentano tuttavia una qualche attinenza con l'oggetto della controversia, e costituiscono perciò uno strumento per indirizzare la decisione del giudice» (Cass., n. 14552/2009, richiamata da Tribunale Pordenone, sentenza 25 marzo 2019). 

Il fatto che il provvedimento di cancellazione delle espressioni sconvenienti od offensive è emesso sotto forma di ordinanza "in ogni stato dell'istruzione" «vale a sottolineare il rilievo per cui il ridetto provvedimento di cancellazione:

  • non ha alcun contenuto decisorio, rivestendo lo stesso una mera funzione ordinatoria avente rilievo esclusivamente entro l'ambito (e ai soli fini) del rapporto (endo)processuale tra le parti;
  • ha un contenuto di puro merito e la sua indole meramente ordinatoria esclude che della relativa contestazione possa farsi questione dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 10517/2017, richiamata da Cass. civ., n. 30944/2018); 
  • si sottrae all'obbligo di motivazione (Cass. n. 14659/2015, richiamata da .Cass. civ., n. 15137/2016).  

L'stanza di cancellazione promossa da una parte esprime una doglianza circa il contenuto di atti processuali ed è diretta a sollecitare il potere officioso del giudice. Per tale motivo essa deve contenere la precisa individuazione delle pretese espressioni sconvenienti e offensive. In mancanza, l'istanza in questione deve considerarsi nulla, tale da non meritare considerazione alcuna, equivalendo ad un'istanza priva di oggetto e inidonea allo scopo di sollecitare il potere su indicato, pur discrezionale, del giudice. In caso di rigetto della predetta istanza di cancellazione, il relativo provvedimento non è suscettibile di impugnazione (Cass. civ., n. 15137/2016). 

 

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