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Contagio da trasfusione, SC: “Nessun risarcimento al paziente se quella trasfusione era necessaria per salvargli la vita”

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Con l'ordinanza n. 15867 dello scorso 13 giugno, la III sezione civile della Corte di Cassazione ha negato il risarcimento richiesto da un paziente per i danni susseguenti ad un contagio derivante dalle emotrasfusioni praticategli, in violazione del consenso informato, in occasione di un intervento realizzato mentre il soggetto era in pericolo di vita. Si è difatti specificato che in presenza di uno stato di necessità, la responsabilità dei sanitari, quand'anche fosse foriera di un fatto dannoso, è certamente scriminata; per poter configurare la lesione del diritto ad essere informato, occorre raggiungere la prova, anche tramite presunzioni che, ove compiutamente informato, il paziente avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.

Nel caso sottoposto all'attenzione della Corte, due genitori, in proprio e quali legali rappresentanti dei figli minori, adivano in giudizio il Comune, la Regione, l'ASL e il Ministero della Salute affinché – previo accertamento della responsabilità contrattuale dei primi tre enti convenuti e la responsabilità aquiliana del Ministero della salute – fossero condannati al risarcimento dei danni patiti dal loro figlio.

In particolare, gli attori esponevano che nel 1974 il loro figlio, allora quattordicenne, a seguito di operazione chirurgica ad un ginocchio, veniva sottoposto – trovandosi in pericolo di vita – alla trasfusione di quattro sacche di sangue, senza che preventivamente fosse acquisito né il loro consenso né quello del ragazzo. A seguito delle summenzionate trasfusioni, il paziente subiva il contagio di virus manifestatisi dopo molti anni, con la conseguente degenerazione di una patologia epatica in cirrosi. 

Espletata la consulenza medico legale, il Tribunale di Venezia rigettava la domanda e compensava le spese: il giudicante riteneva che i medici, basandosi sulle conoscenze mediche del tempo, correttamente avevano proceduto alla trasfusione di quattro flaconi di sangue e che, sempre in base alle suddette conoscenze mediche, il contagio da HVC subìto dal ragazzo non sarebbe stato evitabile neppure con l'ordinaria diligenza.

La decisione veniva confermata dalla Corte di Appello di Venezia che rilevava come, nel caso in esame, il contagio non fosse in alcun modo evitabile, costituendo il medesimo, al momento in cui veniva praticata la trasfusione, il male minore rispetto ad un imminente pericolo di vita. Con specifico riferimento alla violazione del diritto al consenso informato, il Giudice riteneva che non potesse formularsi l'ipotesi che il paziente o i suoi genitori, una volta informati dei rischi, dei costi e dei benefici legati alla trasfusione, avrebbero negato il proprio consenso all'intervento.

I genitori, ricorrendo in Cassazione, censuravano la sentenza d'appello per un duplice ordine di ragioni.

In primo luogo evidenziavano come, a causa della violazione del dovere di corretta tenuta della cartella clinica, non si fosse raggiunta la prova su quali fossero le condizioni del paziente prima e dopo l'intervento e se, quindi, fosse o meno necessario procedere a quelle trasfusioni in via d'urgenza.

In secondo luogo, si eccepiva come i sanitari avessero violato l'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente e dei suoi genitori alla somministrazione delle trasfusioni, rilevando come – soprattutto per l'ultima trasfusione, in mancanza di ogni indicazione terapeutica per la sua somministrazione – il giudice avrebbe dovuto presumere che i genitori del ragazzo, qualora fossero stati adeguatamente informati della valutazione dei medici, non avrebbero dato il loro consenso. 

La Cassazione non condivide le censure rilevate.

In relazione alla prima censura si evidenzia come l'espletata CTU, oltre a dimostrare il nesso di causalità tra le trasfusioni ed il contagio, ha anche acclarato l'assoluta indifferibilità delle trasfusioni per scongiurare il rischio vita del paziente.

Correttamente la Corte di merito ha, pertanto, ritenuto, che il paziente si trovasse in condizioni tali da non poter evitare la trasfusione, sicché il comportamento della struttura sanitaria è stato adeguato, ed alcuna imputabilità può essere alla stessa riferita in termini di evitabilità dell'evento dannoso.

Gli Ermellini confermano, quindi, l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, in presenza di uno stato di necessità, la responsabilità dei sanitari, quand'anche fosse foriera di un fatto dannoso, è certamente scriminata.

In relazione alla seconda censura, la Cassazione rileva come, in presenza delle condizioni molto gravi del paziente e della valida indicazione per la somministrazione delle trasfusioni, i genitori avrebbero certamente dato il loro consenso: è necessario dare quindi continuità alla giurisprudenza secondo la quale, per poter configurare la lesione del diritto ad essere informato, occorre raggiungere la prova, anche tramite presunzioni che, ove compiutamente informato, il paziente avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute.

In conclusione la Cassazione rigetta il ricorso e, ritenute sussistenti giuste ragioni, compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione. 

 

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