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Emotrasfusioni, Cassazione: “Il paziente deve dimostrare l’avvenuta trasfusione, anche ricorrendo a presunzioni”

Emotrasfusioni, Cassazione: “Il paziente deve dimostrare l’avvenuta trasfusione, anche ricorrendo a presunzioni”

Con l'ordinanza n. 29766 dello scorso 29 dicembre, la I sezione civile della Corte di Cassazione ha fornito importanti precisazioni in merito all' onere probatorio incombente su chi chieda l'indennizzo per i danni irreversibili derivanti da epatiti posttrasfusionali, specificando che il paziente deve fornire la prova, sia pure presuntiva, dell'effettuazione della trasfusione.

Si è difatti chiarito che "ai fini del sorgere del diritto all'indennizzo previsto in favore di coloro che presentino danni irreversibili derivanti da epatiti posttrasfusionali dall'art. 1, comma terzo, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, la prova a carico dell'interessato ha ad oggetto l'effettuazione della terapia trasfusionale, il verificarsi dei danni anzidetti e il nesso causale tra i primi e la seconda, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica. In applicazione del criterio della vicinanza della prova, l'attore danneggiato può provare il nesso causale tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV anche con il ricorso alle presunzioni, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente".

Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, una donna citava in giudizio la Regione Lazio e il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali per ottenere il pagamento dell'indennizzo di cui all'art. l commi 1 e 3, della legge n. 210 del 1992, in relazione all'epatite HCV contratta a seguito dell'emotrasfusione effettuata in occasione di un intervento chirurgico subito nel 1977. 

 Sia il Tribunale di Viterbo che la Corte d'appello di Roma rigettavano la domanda in quanto, anche in ragione delle risultanze della CTU, era emerso come mancasse la prova del nesso di causalità materiale tra infezione ed emotrasfusione, della quale non vi era traccia nella documentazione formata in occasione dei ricoveri ospedalieri.

In particolare, la Corte di Appello – aderendo alle conclusioni del CTU – sottolineava la circostanza per cui dalla cartella clinica relativa al ricovero ospedaliero risultava essere stata effettuata solo la interreazione tra il sangue della paziente e alcuni flaconi ematici, mentre non risultava che la paziente fosse stata sottoposta a emotrasfusioni: mancavano, quindi, elementi probatori a conferma delle emotrasfusioni e quindi all'effettivo contatto della ricorrente con la fonte del contagio dal virus dell'epatite C.

Avverso tale sentenza ricorreva in Cassazione la paziente deducendo la violazione degli artt. 115 c.p.c. e 1218 c.c. per non aver la Corte d'Appello tenuto conto di una serie di dati astrattamente idonei a provare il contagio, sicché diveniva onere dell'Amministrazione provare, ai sensi dell'art. 1218 c.c., che non vi era stato inadempimento o che, se sussistente, era eziologicamente irrilevante.

A tal fine la donna rilevava che – sebbene si fosse verificata una incolpevole perdita della prova documentale (cartella clinica e scheda trasfusionale) – cionondimeno era riuscita a provare di essere stata sottoposta ad emotrasfusioni in occasione dell'intervento chirurgico, in quanto erano state effettuate le prove di interreazione tra i propri campioni di sangue e quattro flaconi del Centro trasfusionale Avis; il marito, inoltre, aveva riferito – in qualità di testimone – che la moglie era stata sottoposta a trasfusione con tre sacche di sangue.

Secondo la difesa della donna, pur in assenza di prova documentale, la trasfusione poteva essere provata con qualsiasi mezzo, applicando il principio del più probabile che non.

La Cassazione non condivide le censure formulate dalla ricorrente.

 In punto di diritto, la Corte ricorda come in tema di responsabilità extracontrattuale per danno causato da attività pericolosa da emotrasfusione, in applicazione del criterio della vicinanza della prova, l'attore danneggiato può provare il nesso causale tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV anche con il ricorso alle presunzioni, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente. Tale principio, tuttavia, ha come necessario presupposto la prova, sia pure presuntiva, dell'effettuazione della trasfusione.

Ne deriva che, ai fini del sorgere del diritto all'indennizzo previsto in favore di coloro che presentino danni irreversibili derivanti da epatiti posttrasfusionali dall'art. 1, comma terzo, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, la prova a carico dell'interessato ha ad oggetto l'effettuazione della terapia trasfusionale, il verificarsi dei danni anzidetti e il nesso causale tra i primi e la seconda, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica.

Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini rilevano come non risultava dalla cartella clinica l'effettuazione di alcuna trasfusione e la Corte d'Appello – con motivazione logica e congrua, insindacabile in sede di legittimità – ha ritenuto che la testimonianza del marito della ricorrente non fosse decisiva in relazione alle risultanze della documentazione sanitaria.

In virtù di tanto, la Corte dichiara inammissibile il ricorso, condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio e al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

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