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Con la sentenza n. 2736 dello scorso 25 gennaio, la V sezione penale della Corte di Cassazione – chiamata a pronunciarsi in tema di applicazione di misure cautelari – ha escluso che seguire sui social network i profili dei parenti di una vittima, potesse estrinsecarsi un'intrusiva volontà di controllo, suscettibile d'ingenerare un concreto timore per l'incolumità dei congiunti della vittima e legittimare l'aggravamento della misura cautelare precedentemente disposta.
Si è, difatti, precisato che "il pericolo di reiterazione non può dedursi dall'astratta gravità del titolo del reato, rendendosi necessario valutare la gravità del fatto alla luce delle sue concrete manifestazioni, in quanto la modalità della condotta e le circostanze di fatto in presenza delle quali essa si è svolta restano concreti elementi di valutazione imprescindibili per effettuare una prognosi di probabile ricaduta del soggetto nella commissione di ulteriori reati".
Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina, con ordinanza, applicava la misura coercitiva della custodia cautelare in carcere ai danni di un uomo, in relazione all'imputazione di delitto di omicidio preterintenzionale.
La misura inframuraria – disposta in aggravamento della misura degli arresti domiciliari con divieto di comunicazione con persone diverse dai conviventi e applicazione del dispositivo elettronico a distanza (cd. braccialetto elettronico) – veniva applicata in quanto l'uomo aveva seguito sui social network, i "profili" di alcuni dei congiunti della vittima dell'omicidio imputato di natura preterintenzionale.
La misura cautelare veniva confermata dal Tribunale del riesame di Messina, sul presupposto che l' "intrusivo" comportamento dell'uomo, pur se posto in essere senza infrangere il divieto di comunicazione, denotasse comunque una volontà di controllare la vita di relazione dei parenti della vittima, tale da turbare la serenità di questi ultimi e a ingenerare "un concreto timore per la propria incolumità, in considerazione dell'aggressione mortale consumata ai danni del loro congiunto".
Ricorrendo in Cassazione, l'uomo censurava la decisione per violazione di legge dell'art. 274, primo comma, lett. c), del codice di rito e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell'aggravamento delle esigenze cautelari, posto che nell'impugnato provvedimento non era indicato da dove potesse dedursi il pericolo di reiterazione, né lo stesso poteva essere ritenuto sussistente dalla dedotta gravità del titolo del reato, rendendosi invece necessario valutare la gravità del fatto alla luce delle sue concrete manifestazioni.
La Cassazione condivide le doglianze formulate.
Gli Ermellini ricordano che il pericolo di reiterazione non può dedursi dall'astratta gravità del titolo del reato, rendendosi necessario valutare la gravità del fatto alla luce delle sue concrete manifestazioni, in quanto la modalità della condotta e le circostanze di fatto in presenza delle quali essa si è svolta restano concreti elementi di valutazione imprescindibili per effettuare una prognosi di probabile ricaduta del soggetto nella commissione di ulteriori reati.
In relazione al caso di specie, gli Ermellini rilevano come il Tribunale abbia dato prevalenza esclusivamente all'astratta gravità del titolo del reato nel punto in cui ha enfatizzato "l'aggressione mortale consumata ai danni" della vittima, senza ulteriormente dar conto della concreta incidenza della condotta del ricorrente ai fini del ritenuto aggravamento delle esigenze cautelari.
Sul punto, la sentenza in commento evidenzia come la concreta condotta perpetrata, le circostanze che l'hanno connotata, la gravità del fatto medesimo nelle sue concrete manifestazioni per come delineati nella motivazione dell'impugnato provvedimento, non offrono la dimostrazione dell'inadeguatezza della misura cautelare in precedenza applicata, né restituiscono un quadro, obiettivamente e specificamente delineato, di aggravamento delle esigenze di cautela; inoltre, la decisione impugnata non spiega perché la condotta puramente passiva del ricorrente, consistente nel seguire su una rete sociale i profili pubblici delle parenti della vittima, rivelava un'intrusiva volontà di controllo, suscettibile d'ingenerare un concreto timore per l'incolumità dei congiunti della vittima.
In conclusione, la Cassazione accoglie il ricorso, annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Messina - sezione riesame.
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