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Responsabilità sanitaria: la transazione con la clinica non esclude il risarcimento dovuto dal medico

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 Con la pronuncia n. 22800 dello scorso 26 settembre, la III sezione civile della Corte di Cassazione, occupandosi di una transazione stipulata a seguito di una richiesta di risarcimento danni per responsabilità medica del ginecologo e dell'ente ospedaliero, ha negato che siffatto accordo transattivo potesse avere efficacia anche verso il sanitario, posto che "la norma di cui all'art. 1304, primo comma, cod. civ. si riferisce alla transazione che abbia ad oggetto l'intero debito, e non la sola quota del debitore con cui è stipulata. Spetta al giudice del merito verificare quale sia l'effettiva portata contenutistica del contratto; e, ove uno dei debitori dichiari di volerne profittare, dovrà anche dar conto degli elementi da lui forniti al fine di dimostrare l'effettiva e concreta manifestazione di tale volontà, valutando in modo coerente e logico tutte le emergenze processuali che concorrono a delineare inequivocabilmente la sua intenzione".

Sul merito della questione si era pronunciato, inizialmente, il Tribunale di Taranto, adito da una coppia di coniugi per ottenere – in proprio ed in qualità di esercenti la potestà sui figli allora minori – il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del parto del loro primogenito il quale, a causa della negligenza della struttura, aveva riportato, al momento della nascita, lesioni gravissime e totalmente invalidanti che lo avevano ridotto ad una vita vegetativa.

In corso di causa, gli attori raggiungevano un accordo transattivo con la Casa di Cura. Il Tribunale, riconosciuta la responsabilità concorrente della clinica con il ginecologo, condannava quest'ultimo a corrispondere, a titolo di risarcimento danni, l'importo pari ad euro 1.200.000,00 e dichiarava la cessazione della materia del contendere nei confronti della struttura sanitaria. 

La Corte d'Appello di Lecce, su impugnazione del ginecologo, riformava la sentenza, ritenendo che l'atto di transazione riguardasse l'intera obbligazione risarcitoria e non soltanto il pregiudizio ascritto alla Casa di Cura: a sostegno di tale assunto, la Corte valorizzava la dichiarazione, resa dal ginecologo e contenuta nel proprio atto d'appello, di voler profittare dell'accordo transattivo intervenuto tra i genitori e la clinica; in secondo luogo sosteneva che la mancata produzione della transazione da parte degli attori dovesse indurre a ritenere che l'accordo transattivo avesse riguardato l'intera obbligazione, essendo tale conclusione l'unica a dare spiegazione all'ostinato rifiuto di esibizione da parte degli attori.

Contro siffatta decisione, proponevano ricorso per cassazione i genitori del minore, deducendo come la Corte di merito avesse mal interpretato, in ragione del loro rifiuto a produrre la transazione in giudizio, la valenza dello stesso negozio: rilevavano al riguardo che la verifica del contenuto di essa era desumibile da tutti gli atti prodotti e dai verbali di udienza, dai quali si evinceva che l'accordo era stato raggiunto non per l'intera pretesa ma solo per parte di essa e a definizione della posizione della clinica.

Sottolineavano, inoltre, come il ginecologo mai avesse dichiarato di voler profittare dell'accordo transattivo manifestando, per la prima volta, siffatta volontà soltanto in grado d'appello: ne derivava, quindi, l'impossibilità di applicare l'art. 1304 c.c. laddove statuisce che la transazione fatta dal creditore con uno dei debitori in solido produce effetti nei confronti degli altri se questi dichiarano di volerne profittare. 

 La Cassazione condivide le doglianze dei ricorrenti.

Richiamata la propria consolidata giurisprudenza secondo cui "ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un'approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento" (Cass. 9105/2017), gli Ermellini evidenziano che risulta centrale, per il caso di specie, analizzare il contenuto del contratto e della manifestazione di volontà del ginecologo avente per oggetto la consapevole dichiarazione profittare.

Difatti, la norma di cui all'art. 1304 c.c. si riferisce unicamente alla transazione che abbia ad oggetto l'intero debito, e non la sola quota del debitore con cui è stipulata, giacché è la comunanza dell'oggetto della transazione stessa a far sì che possa avvalersene il condebitore solidale che non abbia partecipato alla sua stipulazione: in tale indagine spetta al giudice del merito verificare quale sia l'effettiva portata contenutistica del contratto e della dichiarazione del condebitore di volerne profittare (Cass. 20107/2015 ).

La sentenza in commento evidenzia come la Corte territoriale ha reso, su entrambi gli elementi, una motivazione non congrua, giungendo ad individuare il contenuto e, soprattutto, l'ampiezza della transazione attraverso circostanze ad essa estranee.

Illogico è stato ritenere che la transazione riguardasse l'intero debito per il rifiuto da parte degli attori di esibirlo in giudizio, senza analizzare la reale manifestazione di volontà del condebitore e omettendo del tutto di argomentare in modo logico in ordine alle altre emergenze processuali (come l'espressa dichiarazione resa in udienza dagli attori – i quali davano atto che l'accordo transattivo era intervenuto solo con la clinica in quanto il medico espressamente voleva rimanerne fuori, non considerarsi coobbligato solidale – e il comportamento processuale della clinica che, rinunciando alla chiamata in causa del medico, offriva un indizio a sostegno della tesi secondo cui l'impegno assunto riguardava soltanto la sua posizione debitoria) che in termini fattuali, presentavano, rispetto alle conclusioni dei giudici di merito, un significato contrastante.

Alla luce di siffatte contingenze, la sentenza impugnata viene cassata. La Cassazione accoglie, dunque, il ricorso e rinvia alla Corte di Appello di Bari per un nuovo esame della controversia, da compiersi alla luce dei principi di diritto enunciati.

 

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