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La lett. a), del co. 1, art. 55-quater delle "norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs. n. 165/2001), prevede, per il caso di falsa attestazione della presenza in servizio, l'applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento.
La disposizione ha suscitato, sin dalla sua introduzione, una serie di perplessità in dottrina ed in giurisprudenza perché ritenuta troppo severa, non lasciando all'interprete, a causa della sua infelice formulazione, alcun margine di valutazione circa la gravità della condotta.
La questione si pone soprattutto in riferimento all'uso dell'avverbio "comunque" nel comma citato, perché è proprio tale richiamo a connotare la sanzione in parola di quel singolare automatismo che secondo molti stride con i principi di civiltà giuridica.
Sul punto è intervenuta in tempi diversi la giurisprudenza, che, con un'interpretazione garantista, ha chiarito che anche l'art. 55-quater è sindacabile alla luce del principio di civiltà giuridica del canone di proporzionalità della sanzione, con un apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua e immune da vizi. Esso, dunque, anche se non espressamente, consente al giudice la verifica, caso per caso, dell'elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione dell'esistenza di elementi che assurgano a scriminante della condotta tenuta dal lavoratore, tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa.
La sezione lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30418 del 2 novembre scorso, ha rigettato il ricorso proposto da una collaboratrice amministrativa che era stata licenziata per non aver strisciato il badge all'uscita ed al rientro dalla pausa pranzo, in cinque occasioni nel corso del medesimo anno.
In tale decisione i giudici di legittimità, oltre a riaffermare principi già espressi in precedenza in relazione alla falsa attestazione contemplata alla lett. a dell'art. 55-quater, D.Lgsl. 165/2001, ha fornito chiarimenti sia in ordine alla natura giuridica dell'illecito, affermando che si tratta di una fattispecie in cui la gravità del fatto è presunta, salvo prova contraria, sia sull'oggetto del giudizio di proporzionalità ed adeguatezza, che è dalla corte individuato nella valutazione della gravità dell'adempimento.
Il principio di massima.
L'art. 55-quater del D.Lgs. 165 del 2001 ha introdotto e tipizzato alcune ipotesi di infrazione particolarmente gravi e, come tali, ritenute idonee a fondare un licenziamento. A fronte di una fattispecie legale, si pone, quindi, il problema di verificare i principi che il giudice deve applicare nel valutare la legittimità della sanzione irrogata dall'Amministrazione, una volta accertato che il lavoratore abbia commesso una delle mancanze previste dalla norma, e, pertanto, se il licenziamento sia una conseguenza automatica e necessaria, ovvero se l'amministrazione conservi il potere-dovere di valutare l'effettiva portata dell'illecito tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, di graduare la sanzione da irrogare, potendo ricorrere a quella espulsiva solamente nell'ipotesi in cui il fatto presenti i caratteri propri del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento. Ferma la tipizzazione della sanzione disciplinare (licenziamento) una volta che risulti provata la condotta, permane la necessità della verifica del giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione che si sostanzia nella valutazione della gravità dell'inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso.
Cassazione, sezione lavoro, sentenza del 2 novembre 2023, n. 30418.
Il fatto.
La Corte d'appello di Brescia rigettava l'appello proposto contro una sentenza che aveva respinto il ricorso di una collaboratrice scolastica contro il licenziamento intimatogli per essersi assentata in cinque occasioni durante l'anno scolastico senza strisciare il badge.
Secondo la lavoratrice, la corte d'Appello non aveva fatto buon uso dei principi giurisprudenziali che vietano il ricorso a qualsiasi automatismo nell'irrogazione della sanzione disciplinare, perché non aveva tenuto conto né del fatto che le assenze coincidevano perfettamente con le pause pranzo previste dalla contrattazione collettiva (e che dunque il danno provocato era irrisorio) né della ulteriore circostanza che il procedimento disciplinare era conseguito ad indagini svolte nei confronti di altri dipendenti.
La Corte territoriale, nel rigettare l'appello, aveva rilevato che, seppure le assenze non registrate coincidessero effettivamente con l'orario della pausa pranzo e si fossero protratte per un tempo sostanzialmente coincidente con la durata della pausa prevista dal CCNL comparto scuola, ciò non valeva a giustificare o a valutare con minor rigore le condotte tenute dall'appellante.
Ciò poiché la necessità per tutti i dipendenti di assolvere all'incombenza della timbratura anche in caso di interruzione del servizio per usufruire della pausa pranzo emergeva sia dal CCNL invocato dalla ricorrente che dal piano di lavoro per il personale ATA sottoscritto per l'anno scolastico di riferimento.
La decisione della Corte.
Secondo i giudici di legittimità, la statuizione della Corte territoriale deve ritenersi corretta e non adottata in violazione del divieto di automaticità della sanzione disciplinare.
Secondo quanto si legge nella motivazione del provvedimento, l'intenzionalità della condotta fraudolenta non è stata infatti tratta dal giudice del secondo grado dalla circostanza in sé dell'uscita dall'ufficio in mancanza di previa timbratura all'uscita ed all'entrata, che costituisce violazione presuntivamente grave, ma ha effettuato il contestuale esame degli elementi dedotti dalla lavoratrice per vincere tale presunzione, in particolare la coincidenza con la pausa pranzo, escludendone, con specifiche argomentazioni, la rilevanza.
La corte d'appello, ha concluso la Cassazione, nell'affermare che la condotta della lavoratrice era idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con l'amministrazione datrice di lavoro, ha fatto, dunque, corretto uso dei principi espressi in materia, i quali escludono che la modesta entità del fatto addebitato vada ragguagliata al danno patrimoniale subito dall'amministrazione, ed affermano, invece, la necessità che tale gravità vada valutata con riferimento all'idoneità del comportamento a ledere la fiducia del datore di lavoro e ad incidere sui futuri comportamenti.
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Paola Mastrantonio, avvocato; amante della libertà, della musica e dei libri. Pensiero autonomo è la mia parola d'ordine, indipendenza la sintesi del mio stile di vita. Laureata in giurisprudenza nel 1997, ho inizialmente intrapreso la strada dell'insegnamento, finché, nel 2003 ho deciso di iscrivermi all'albo degli avvocati. Mi occupo prevalentemente di diritto penale. Mi sono cimentata in numerose note a sentenza, pubblicate su riviste professionali e specializzate. In una sua poesia Neruda ha scritto che muore lentamente chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno. Io sono pienamente d'accordo con lui.