Se questo sito ti piace, puoi dircelo così

Dimensione carattere: +

Avevo ventidue anni e mi ero laureato con lode in giurisprudenza da una settimana appena

michele-navarra-imm

Il processo nel suo insieme non era andato né benissimo né malissimo. Era andato esattamente come in genere va un processo indiziario: così così.

Alcuni elementi a favore, alcuni contro, alcuni né a favore né contro.

Controllandomi per la centesima volta la temperatura, ripensai a mia madre, alla malattia che l'aveva colpita un paio d'anni prima, e a mio padre e ai suoi ultimi giorni di vita.

Lo facevo sempre più spesso ormai. E adesso che stavo male, il pensiero di quei giorni tristi mi si ripresentò davanti quasi automaticamente.

Erano trascorsi quasi vent'anni dal giorno in cui, in una bella giornata di marzo, la malattia si era portata via mio padre.

 Un brutto male, come si usa dire pur di non pronunciare quella parola terribile che ci fa sempre stringere il cuore: cancro, o tumore, per chi ama una terminologia più morbida.

Il giorno prima dell'ultima crisi, quella fatale, mi aveva chiesto di aiutarlo a morire, a farla finita. Erano state queste le parole esatte che aveva usato.

Lo aveva chiesto con un filo di voce, mentre mi chinavo per baciarlo prima di andare a dormire.

Ricordo che quella richiesta mi aveva sorpreso, non tanto per il suo contenuto, che io condividevo pienamente, quanto per la lucidità con cui era stata avanzata, visto che nell'ultima settimana mio padre, per colpa della malattia allo stadio terminale, sembrava aver completamente smarrito la cognizione del sé.

E io l'avrei fatto.

L'avrei aiutato.

Non mi si chieda come, perché non lo so nemmeno io. Ma un modo l'avrei trovato, questo è sicuro.

Non m'interessavano per nulla tutte quelle belle discussioni sull'eutanasia, sulla libertà di autodeterminazione, sul diritto di scegliere se vivere o morire.

Ho sempre creduto che ognuno abbia il diritto di avere la propria opinione al riguardo e sono fermamente convinto che non ve sia una più giusta delle altre.

Io avevo la mia. Punto e basta.

Avevo ventidue anni e mi ero laureato con lode in giurisprudenza da una settimana appena – si può capire con quale stato d'animo avevo incassato i complimenti della commissione di laurea – e già la vita mi poneva di fronte a delle scelte difficilissime.

 Mio padre aveva chiesto a me di prendere una decisione, di aiutarlo, come tutti del resto avevano sempre fatto nel corso della mia vita, fin da quando ero soltanto un bambino. "Tanto Alessandro è bravo, tanto Alessandro non sbaglia mai". E poi dice che ti viene voglia di scappare…

La mia decisione l'avevo presa.

In quell'occasione però il fato era stato più rapido di me e mi aveva sollevato da quell'incarico, tanto assurdo quanto invero logico e condivisibile, che mi era stato imposto e che avevo deciso di accettare.

Quando i medici avevano sospeso la respirazione assistita, avevo tenuto per mano mio padre fino all'ultimo istante, delicatamente, per paura di potergli fare male.

Mentre il suo cuore accelerava all'impazzata, affamato di quell'ossigeno che i suoi polmoni non riuscivano più a fornirgli, gli avevo sussurrato all'orecchio di stare tranquillo, di non preoccuparsi.

Avrei pensato io a tutti e a tutto.

Come sempre.

Come al solito.

Avevo continuato a parlargli, dolcemente, fino a quando i medici mi avevano avvertito che mio padre non c'era più. Ci aveva lasciato. Per rifugiarsi in un posto migliore spero.

La malattia di mia madre invece per il momento sembrava essere stata sconfitta.

Mia madre è una donna forte per fortuna. E troppo spesso triste.

Non oso neppure pensare a quello che mi sarebbe accaduto se si fosse arresa anche lei al destino.

E' una delle ragioni della mia vita. Senza di lei mi sentirei perduto.

Quando si era ammalata – anche lei per un maledetto cancro – e aveva rischiato di non farcela, il mondo mi era crollato addosso.

Poi, grazie a Dio, quella donna formidabile sembrava aver domato il male.

Domani avrei affidato alla mia voce, per l'ennesima volta, il destino di un uomo. Il suo futuro.

Pensare a quei giorni, alla sofferenza di mio padre e di mia madre, al loro dolore e a quello di tutta la mia famiglia, mi faceva infuriare, ma allo stesso tempo mi dava una strana forza.

Una forza potente.

Mia madre dice sempre che, oltre che essere un bravo figlio, sono nato fortunato; che tutto quello che comincio finisce bene.

Spero tanto che abbia ragione su entrambi gli aspetti.

Mio padre invece non mi diceva tante cose.

Almeno non con la voce.

Me le diceva in silenzio. Con gli occhi.

Ed erano sempre cose bellissime, meravigliose.

Mi piacerebbe che domani entrambi fossero in aula, seduti accanto a me, felici come li ho visti troppe poche volte.

A seguire la mia arringa finale, anche se il destino ha deciso di non concederci questo privilegio.

Cercherò di non deluderli.

Mentre ingoio l'ennesima compressa di antipiretico, mi viene da pensare, da credere anzi, che mia madre resterà sempre accanto a me, a infondermi quella forza e quel coraggio che spesso mi mancano.

E che forse nemmeno mio padre mi ha abbandonato del tutto. Ha solo cambiato prospettiva. Si è fatto un po' da parte, ecco, per guardare i suoi figli da un punto di osservazione diverso, privilegiato, senza più affanno, ma con la stessa premura di sempre.

Voglio pensare che la sua anima mi è rimasta e mi rimarrà sempre accanto.

D'altra parte, se è vero che le persone hanno un'anima, che vola via al momento di lasciare questa vita, allora quella di mio padre mi ha sicuramente sfiorato.

 

Tutti gli articoli pubblicati in questo portale possono essere riprodotti, in tutto o in parte, solo a condizione che sia indicata la fonte e sia, in ogni caso, riprodotto il link dell'articolo.

Sezioni Unite chiariscono cosa deve fare l'avvocat...
Le Iene, annuncio su Fb "Approvata la legge Brami...

Forse potrebbero interessarti anche questi articoli

Cerca nel sito