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Con la sentenza n. 45521 dello scorso 8 novembre, la VI sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la condanna per il reato di maltrattamenti inflitto ad un marito che, per tutti gli anni del matrimonio, aveva insultato, percosso e minacciato la sua compagna, rigettando le difese dell'uomo secondo cui il reato non era integrato per l'assenza di concrete aggressioni fisiche ai danni della donna.
Si è quindi specificato che l'elemento psicologico del reato ben può evincersi dalla circostanza che siano state poste in essere continue angherie psicologiche, lesive della dignità di donna e di madre della persona offesa.
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato del reato di cui all'art. 572 c.p. per avere, nel corso della convivenza familiare, commesso atti di maltrattamento nei confronti della moglie convivente anche in presenza dei figli minori, ponendo in essere reiterate condotte ingiuriose, aggressive, lesive e vessatorie.
Per tali fatti, sia il G.u.p. presso il Tribunale di Pavia che la Corte d'appello di Milano condannavano l'uomo alla pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione, oltre al risarcimento del danno in favore della persona offesa e al pagamento di una provvisionale pari ad euro 7.000,00.
A sostegno della propria decisione, la Corte di Appello valorizzava le dichiarazioni della persona offesa, che aveva nel dettaglio descritto le continue minacce, aggressioni e offese ricevute.
Ricorrendo in Cassazione, l'imputato contestava il giudizio di sussistenza degli estremi oggettivi e soggettivi del reato di maltrattamenti, rilevando, tra le altre cose, come – nel caso di specie – facesse difetto l'elemento soggettivo del reato, poiché – sebbene la convivenza della coppia fosse stata difficoltosa – non vi era mai stato intento di vessazione, sicché mancava lo stato di prostrazione fisica o morale della persona offesa. A tal riguardo insisteva sulla circostanza per cui solo in un'occasione, al termine di un litigio, l'aveva colpita, provocandole delle lesioni fisiche.
La Cassazione non condivide le censure rilevate.
In punto di diritto, la Corte ricorda come il reato di maltrattamenti è un reato abituale, essendo costituito da una pluralità di fatti commessi reiteratamente dall'agente con l'intenzione di sottoporre il soggetto passivo a sofferenze fisiche e morali, per una serialità minima in cui ogni condotta successiva si riallaccia alla precedente, dando vita ad un illecito strutturalmente unitario.
Ne deriva che il reato è integrato qualora, nel corso di una lunga convivenza con il proprio compagno, quest'ultimo abbia posto in essere continue minacce, aggressioni, offese ed altri atti di violenza che attestano, inequivocabilmente, la propria volontà di imporre al partner un regime di vita mortificante, non posto in dubbio dal fatto che la parte offesa abbia in alcune occasioni a sua volta reagito.
In particolare, con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come l'elemento psicologico del reato ben si evinca dalla circostanza che erano state poste in essere continue angherie psicologiche, lesive della dignità di donna e di madre: l'uomo, infatti, in più occasioni, aveva preso per il collo la moglie per poi sbatterla contro il muro; l'aveva cacciata di casa; anche a fronte di accadimenti banali (quali la preparazione asseritamente errata del thè o della colazione), aveva reagito con smodata collera, sino a giungere, in una occasione, a colpirla violentemente, provocandole la frattura delle ossa nasali e la rottura degli incisivi.
Tali circostanze ben giustificano l'inquadramento giuridico della fattispecie, essendo emblematici della sistematica volontà dell'imputato di imporre alla moglie un regime di vita mortificante e violento, non posto in dubbio dal fatto che la parte offesa avesse in alcune occasioni a sua volta reagito.
Alla luce di tanto, la Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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