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L'immunità grammaticale del Legislatore italiano, antologia di "maestrie"

L'immunità grammaticale del Legislatore italiano, antologia di "maestrie"

L'incomprensibilità delle leggi italiane costituisce un grosso problema ed è spesso causa di tanti processi poiché se una norma si presta a più interpretazioni, ognuno cercherà quella che più gli aggrada. Lo stesso vale per il linguaggio della pubblica amministrazione.

Anche per questo è nata la Cassazione, il cui compito più importante è la "nomofilachia" (cominciamo bene!), cioè la corretta interpretazione della legge. In passato si è più volte sentita – nell'ambito burocratico - l'esigenza di facilitare il compito all'interprete, tant'è che il Dipartimento della Funzione Pubblica ebbe ad emanare un Manuale di stile per un linguaggio amministrativo vicino al cittadino, contenente suggerimenti e indicazioni rivolte alle pubbliche amministrazioni per l'utilizzo di parole semplici e comprensibili. In esso si ricorda che per ogni situazione esiste un modo di dire preferibile ad altri possibili. Tanto per fare un esempio, una delle locuzioni tipiche del burocratese è «all'uopo» (dal latino opus, cioè necessità). Essa fa parte dello slang della burocrazia o, se si vuole, del burocratese. Nonostante la sua intrinseca antipaticità (forse perché ricorda uffici e pratiche), tale termine figura in quasi 7.000 tra leggi, regolamenti, circolari, ecc. Ancor prima del citato manuale di stile, il ministro Sabino Cassese aveva tentato di combattere il linguaggio ridicol-burocratico, lottando invano contro «gli sportelli impresenziati» (menzionati nella circolare del Ministero dell'Interno 18 marzo 2008 n.30), la «lettera codiciata», la «nota attergata» e così via. Ma la burocrazia fece quadrato: resistere! resistere! resistere!

 Non ebbero esito migliore gli interventi dei vari Urbani, Bassanini, Frattini e persino del prof. Tullio De Mauro che sta alla lingua italiana come la melanzana sta alla pasta alla Norma. Diceva qualcuno: «Meglio non sapere come vengono fatte le salsicce e le leggi!» Il legislatore, in un orgiastico momento di indegnità filologica, non si è reso conto di quanta perversione linguistica contenga l'art. 152 del Testo unico di pubblica sicurezza, come modificato con la legge 311 del 2001, il quale così maldestramente recita: «Per le attività ricomprese fra quelle indicate dall'articolo 86 della legge o dall'articolo 158 del presente regolamento, disciplinate da altre disposizioni di legge statale o regionale, la licenza e ogni altro titolo autorizzatorio, comunque denominato, previsti da queste ultime disposizioni, svolge anche, previa verifica della sussistenza delle condizioni previste dalla legge, la funzione di autorizzazione ai fini del predetto articolo 86, con l'osservanza delle disposizioni del titolo I, capi III e IV, e degli articoli 100, 101, 108, terzo comma, 109 e 110 della legge, nonché di quelle del presente regolamento non incompatibili con altre disposizioni che disciplinano specificamente la materia».

Ma la cosa che fa più rabbia è che questa astrusa disposizione è stata inserita il 28 maggio del 2001 e cioè appena 26 giorni dopo che era stata pubblicata una circolare (l'ennesima) emessa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri dal titolo-burla: Guida alla redazione dei testi normativi, il cui primo articolo ancora più beffardamente recita: «Stile delle disposizioni. Il precetto normativo ha la valenza di un ordine. Esso, dunque, è efficace ed autorevole solo se è preciso, sintetico e chiaro per il destinatario». E poi così prosegue: «Ottengono tale risultato le disposizioni brevi, chiare, non involute, caratterizzate dalla forma precettiva e prive di premesse che si propongano di darne una motivazione. La corretta formulazione della disposizione normativa evita qualsiasi ambiguità semantica e sintattica, e persegue gli obiettivi della semplicità espositiva e della precisione di contenuto». Ma allora ci prendono per i fondelli? E tanto per non smentirsi, la circolare suddetta reca un numero di per sé astruso «1/1.1.26/10888/9.92» ed è firmata dal Capo del Dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi che di cognome fa Malinconico (ma è solo una coincidenza!).ù

Il nostro legislatore sembra poi godere di immunità grammaticale. Ma perché mai dovremo andare da un avvocato (o forse meglio: da un professore di lingua italiana) per farci spiegare cosa sono le «somme da scomputare nella fattispecie dell'impossidenza del diritto irrefragabile», per la verità oggetto di critica anche dalla direttiva ministeriale 8 maggio 2002 n. 23580? Non è necessario invece scomodare avvocati e professoroni per capire cosa ci vuol dire l'art. 10 del D.L. 20 giugno1996 n. 323 che al comma 22 così 'chiaramente' recita: «All'art. 15 del decreto-legge 23 febbraio 1995, n. 41, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 marzo 1995, n. 85, dopo il comma 1, è aggiunto il seguente: "1-bis. Per le unità immobiliari urbane oggetto di denuncia in catasto con modalità conformi a quelle previste dal regolamento di attuazione dell'art. 2, commi 1-quinquies ed 1septies, del decreto-legge 23 gennaio 1993, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 1993, n. 75, si applicano le disposizioni di cui al comma 2-bis dell'art. 12 del decreto-legge 14 marzo 1988, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154, nonchè quelle di cui al primo periodo del comma 1.

Non è proprio necessario scomodare nessuno, perché nessuno capirà cosa diavolo voglia dire. 

In claris non fit interpretatio. Peccato che la chiarezza sia andata a farsi benedire!

 

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