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L'ombra della Colpa - Ho fatto una cazzata, mi sono innamorato della mia praticante

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Alla fine della giornata vado a casa. Franco mi ha telefonato mentre stavo chiudendo. Dice che il patteggiamento è pronto ma che Tardito non ci sente sulla pena proposta, cosa che sapevo già. Aumentare la pena equivarrebbe a sollevare un problema per il procedimento disciplinare. Propone di mantenere ferma la pena che abbiamo individuato, ai minimi. Porteremo il patteggiamento in aula anche se non c'è il parere favorevole del PM: vediamo cosa dirà il Giudice. In questi casi il Tribunale potrebbe decidere di accogliere l'istanza comunque. Mi sembra un'ottima soluzione. Semplice ed efficace. Domani me lo invia. Così posso leggerlo, fare osservazioni e apportare correzioni. L'ultima cosa che farei è correggere quanto scelto da un principe del foro in una materia che ogni avvocato dovrebbe tenere lontana dalla propria sfera intellettiva. Nessuno dovrebbe occuparsi di sé stesso professionalmente. Si rischia il naufragio. A casa non c'è nessuno. Agata non la vedo da questa mattina. Ottavio mi ha lasciato un risotto per due in tavola. E' ancora fumante, con l'onda dentro la pentola. A occhio e croce direi che si tratta del piatto più gattopardesco a cui mi abbia abituato. Il risotto ai fichi d'india. E' incredibile come i piatti rivelino frammenti di una persona. Mi viene in mente Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes e penso subito che Ottavio dovrebbe scrivere Frammenti di un discorso gastronomico. Tutta la sua vita sta dietro la fantasia che esprime in cucina. Latet in herba, come dicevano i latini. Ogni suo piatto è collegato a una persona, una situazione, un momento preciso. Questo cibo, che è semplicissimo (secondo lui è tutto semplice), lo cucinava per un commendatore siciliano che ne andava pazzo. Ogni tanto – da quella scorza che si porta addosso – trapelano i suoi rimpianti. Li manda via in fretta, manco fossero cani randagi da scacciare lontano ma glieli sento addosso, sottotraccia, nelle parole che pronuncia. Ottavio – quando è in giornata – mi racconta sempre un episodio della sua vita. Ha vissuto alla grande, da ricco, con una moglie abile nel lavoro e un treno di vita altissimo, fatto tutto di panna. Oggi accudisce me e non so quanto rimpianto ci sia nelle sue storie. So che mi è affezionato, forse mi vuole perfino bene anche se non lo ammetterà mai. La sua vita passata, faraonica, ogni tanto salta fuori in tutta la sua virulenza affiorando nei suoi piatti come una pinna di squalo. I ristoranti stellati ad Ottavio non legano neanche le stringhe. Telefono ad Agata per dirle di muoversi a tornare a casa. Ha il telefono staccato. Mi incazzo dentro di me. Sono le otto di sera e non so dove sia. Una lama di gelosia mi trafigge il fegato, il cuore, i polmoni e mi fa venire le gambe di gomma. E' da questa mattina che è fuori e non so nulla di lei. Ho fame. Anche la rabbia che mi monta dentro e viene su come acqua alle caviglie mi fa sedere al tavolo. Comincio a mangiare. Lentamente. Bevo un bicchiere di vino ghiacciato. I pensieri cominciano a volteggiare dentro la mia mente come farfalle al crepuscolo. Sento una grande stanchezza prendermi le gambe. Poi sale su. Un po' di quiete. Solo un attimo di silenzio dentro la mia mente, vorrei. Non sentire più i problemi. La vita è diventata per tutti un gomitolo di affanni. Ogni filo è un pensiero, una cura, come dicevano i poeti. Prima era più semplice. Scorreva come olio sull'acqua e non si incendiava mai. Oggi è diverso. Finisco il risotto. Tutto. Il gusto dei fichi d'india gigioneggia con le mie papille gustative che lascia impressionate. Per terminare bevo un passito. Denso come olio, una specie di velluto liquido che mi pulisce anche l'intestino tanto scende in profondità. Penetra in testa e mi rilassa. Un messaggio sul cellulare mi sveglia. E' Agata. Dice che questa sera non può rientrare. Di mangiare. Un cuoricino rosso con una freccia a mo' di firma. Senza dirmi dove si trova, con chi, dove dormirà. Provo a telefonarle all'istante ma il telefono è di nuovo staccato. La quiete che mi aveva indotto il risotto con il passito svapora all'istante. Chissà perché queste cose mi dannano l'anima e mi fanno impazzire. Vado a letto ma so già che non dormirò.

Ma si fa così ?

 La notte è andata. Passata. Superata. La mia inquietudineiniziale è scemata lentamente, nel sonno. Ero troppo stanco anche per mantenere un'incazzatura decente. Guardo subito il telefonino. Sono le sei. Devo avere dormito come un masso. Nessun messaggio. Mi sento riposato. Non so dove sia Agata. Faccio un poco di mente locale nel mio letto. Forse ho sbagliato tutto, mi dico. Mi sono innamorato di una ragazza giovane, troppo giovane. Non siamo più ai tempi di Alessandro Manzoni quando ci si sposava con ragazze come Enrichetta Blondel, sedicenne. Mi sono illuso di cambiare la mia vita quando i giochi erano fatti. Una volta ebbi una ragazza altrettanto giovane che mi disse di considerarsi per me una specie di ultima chance. Mi incazzai di brutto ma forse aveva ragione lei. Quando si fallisce un matrimonio, è comunque difficile rimettersi in pista con donne più giovani. Ho mischiato il lavoro con il cuore, e la cosa non si fa. Lo so da tempo eppure l'ho fatto. Agata è una ragazza giovane, piena di vita e di interessi. Mi rendo conto oltretutto che fino a qualche mese fa nulla sapevo della sua vita sentimentale dopo il suo fidanzamento scoppiato come un fungo atomico. Resta un deserto sconosciuto, e le sue parole al riguardo – ora che ci penso – una confessione un po' enigmatica. In realtà non mi ha mai detto nulla di quel periodo, tra la fine del fidanzamento e me. E' un mistero. Ottavio mi ha detto più volte di averla vista in giro con un bruno, giovane come lei. E gli sms anonimi che mi arrivano sul cellulare ? Ho fatto una cazzata. Non c'è che dire. Mi sono imbarcato per una donna giovane che avevo sempre sotto gli occhi, complici due grandi tette. Questo è il discorso. Ridotto all'essenziale. In un momento della mia vita in cui sono più vulnerabile. Mi sembra di essere diventato sottile come una porcellana su cui anche il tocco di un dito lasci un'impronta. Sono così. Stretto tra un processo che deciderà della mia carriera, un'udienza o due ancora cruciali per una donna invischiata in un mistero a cui penso con angoscia, e una ragazza a cui ho sbagliato a legare la mia esistenza. Pensavo mi avesse lanciato una fune a cui attaccarmi. Quando sei con l'acqua alla gola, tutte le corde sembrano mezzi di sopravvivenza su un pianeta silenzioso in cui senti vibrare la solitudine. Invece era un cordino sottile sottile, come un soffio. Mi sono illuso di ricostruire tutto e invece non c'è nulla. Devo chiudere i miei processi. Non ci sono alternative. Quello che mi ha sempre fregato è stato l'affidamento su altre persone. Quando l'ho fatto, ho sbagliato. Devo fare tutto da solo, se voglio arrivare alla fine senza affogare. Se penso che ho deciso di patteggiare per non compromettere Agata, mi vengono i nervi. Ecco, l'ho detto. Non volevo confessarlo a me stesso ma il pensiero vagava subdolo, sotto coscienza, come un cane silenzioso. Forse, se non ci fosse stata lei di mezzo, avrei potuto affrontare il processo senza legacci. Per farmi massacrare, aggiunge una vocina. Agata non ha colpe. Almeno in questa mia condotta. E non potevo certamente sacrificarla sull'altare della mia dabbenaggine. Il patteggiamento è l'unica via possibile che mi resta da imboccare senza crearmi altri problemi. Forse è meglio che mi alzi. Ho davanti una giornata spessa come una lasagna con besciamella e sono solo. Come Ambrogio Fogar nell'Oceano Atlantico a bordo di un guscio di legno e plexiglas. L'Oceano è come la solitudine ?

Quale dei due è peggio ?

 Faccio colazione. Vado in bagno e mi sbarbo. Oggi ho addosso una di quelle giornate in cui mi sento apatico. A me Paolo Sorrentino non piace. Non mi piace la sua faccia irregolare, non mi piacciono a pelle i suoi libri che ci hanno propinato come best seller anche se poi sono scomparsi inghiottiti dopo igiorni della loro pubblicazione. Non li ho manco letti, a dire il vero.Me ne tengo alla larga. Ilsuo film che ho visto l'altra sera, Youth, mi ha colpito però. C'è un Michael Caine vecchio, dotato di una potenza espressiva che non delude mai, che impersona un compositore musicale in vacanza sulle Alpi svizzere insieme ad altre celebrità. E' un uomo stanco, ancora irresoluto tra tante vicissitudini interiori. E'apatico. Vive e dice che le emozioni non servono a nulla, perché forse ingannano, aggiungo io. Quell'apatia lì me la sento tutta addosso come una maglia invisibile ma pesante come una cotta di ferro. Non ho più voglia di fare, di andare avanti, non ho più voglia perché tanto – anche se ci si illude che cambierà – resta tutto uguale. E' questa la grande illusione. Pensare dentro di noi che arriverà il grande salto mentre restiamo incollati ai nostri millimetrici confini. In questi mesi ho pensato che la vita fosse bella. Lo è senz'altro. Il mio vitalismo c'è, a volte lo sento pulsare in qualche fiammata. Ma è rimasto come imbozzolato in pochi guizzi sporadici. So anche questo, ormai. Non è più quel torrente di primavera che mi sentivo addosso quando facevo l'università. E' diventato piuttosto simile ad un fascio di raggi che scottano ancora ma soltanto quando sono stretti insieme. Da soli, non servono neancheper bollirci un piatto di spaghetti. Con questa specie di inettitudine alla Zeno Cosini me ne vado a lavorare. Il cielo è assente. Non ha colori. Arrivo in studio. Agata è seduta alla sua scrivania con il computer acceso. Appena mi vede mi lancia un sorriso assassino. Le passo davanti senza guardarla e chiudo la porta. Non ho neanche voglia di incazzarmi o di chiederle spiegazioni. Mi chiama al telefono interno e mi dice che La Pira ha deciso di non fare più la causa di lavoro per cui ci aveva contattato. Ma rimarrà licenziato, le dico, incredulo. Dice che con le spese non ce la può fare. Resto basito. Anche in questo ho compiuto un investimento sbagliato. Dare per scontate certe cause. Uno dei più grandi errori che un avvocato possa commettere. Fidarsi della necessità del cliente. Sono così, i clienti. Mossi da invisibili fili, da imperscrutabili pulsioni interiori che li muovono e che mai e poi mai disvelerebbero al loro avvocato. Il povero coglione. Con questo cliente abbiamo condiviso, fin dall'inizio, una bruttissima storia di licenziamento disciplinare. Impiegato da anni all'interno di una grande azienda, dotato di ottime qualità e attitudine al lavoro, ha perso il lavoro per un caso di mail scoperte dal datore di lavoro. Un caso scolastico di licenziamento in cui è possibile sindacare il diritto di violare la riservatezza da parte del padrone. Un caso ormai al confine. Per me esisteva un buon margine di vittoria ed anche il cliente era sembrato entusiasta della linea scelta. Ora, all'improvviso, dopo un anno e mezzo preciso di battaglie, si defila. Non contano i giorni spesi per elaborare una difesa acconcia, le pagine scritte e distillate il più possibile, le riunioni fiume, le mail scrittemi anche di notte, le telefonate improvvise in cui si doveva prestargli un aiuto consolatorio, più amicale che professionale. Una causa non è soltanto diritto, che cazzo. E' sfogo umano, confidenza manifestata in modo consapevole, e non sei tu che vai a sollecitarla. Sono loro che te la chiedono per poi riprendersi tutto un territorio sul quale pensavi o ti eri illuso di avere conquistato un permesso di libero transito. Di solito si ritirano per i soldi. Ti dicono che nessuno li ha avvisati. Nessuno gli ha comunicato che per ogni attività avrebbero dovuto esborsare dei denari. Gli hai fatto un preventivo e lo hanno accettato. Ma dicono che nessuno li ha avvisati. Se vanno dal panettiere, pagano. Se vanno dal macellaio, pagano. Dal pasticciere, pagano. Dall'avvocato – pur avendo un preventivo e chiedendogli denari che non esulano dal preventivo -, non pagano. Mica mi ha avvisato, avvocato. Ma vaffanculo.

Dico ad Agata di calcolare le differenze che ci deve La Pira e di spedirgli il relativo conto con una bella raccomandata. Così non potrà dire che non lo abbiamo avvisato. Basta. Entra Agata e mi porta una memoria. E' di Tardito. E' una memoria ex art. 121 Cpp. Una di quelle che anche noi difensori scriviamo ai giudici quando siamo in dibattimento. L'ha depositata ieri. Qualche giorno prima dell'udienza. La leggo. Tira di nuovo in ballo la telefonata tra la Salmaso e il suo difensore all'epoca della separazione in cui si parlava del nipote. Qui la Salmaso rivelava una specie di attaccamento morboso nei confronti del bambino denunciando al legale di fiducia un sentimento che mi avevainquietato. Tardito sfrutta la telefonata:un'arma solitaria, per quanto spuntata. Chiede ancora che non si proceda all'audizione del minore sulla base della telefonata. Ho il dubbio se depositare anch'io una breve memoria di replica. Probabilmente lo farò, ma soltanto all'alba della mattina in cui è fissata l'udienza.

- Hai intenzione di tenermi ancora il muso, Mario ?

- Hai intenzione ancora di prendermi per il culo, Agata ?

Sono già pentito di quanto appena detto, ma non riesco a tenere a freno la rabbia che mi ribolle dentro. Mi guarda per alcuni secondi e poi si gira. Esce. Sarà giusta la strada dell'orgoglio? Per così poco, poi.

Non era meglio chiederle una spiegazione ?

 

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