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Per i penalisti questo argomento è abbastanza comune. Capita di frequente.
La dinamica è sempre la stessa.
Scoppia qualche guaio giudiziario. Tizio viene arrestato e suoi familiari, o lui stesso, ti nominano difensore di fiducia. Vai in carcere a trovarlo. L'interrogatorio di garanzia incombe e devi assolutamente parlare con il tuo cliente subito. Al colloquio ti appare affranto e si dichiara nelle tue mani. Si professa innocente e comunque ti assicura che si avvarrà della facoltà di non rispondere, come gli hai consigliato. In ogni caso promette solennemente di fare qualunque cosa gli dirai. Allora vai all'interrogatorio confortato da tanta fiducia. Certo, la responsabilità si fa più pesante, ma è in qualche modo addolcita da una completa libertà di manovra. Ti fa sentire libero di cercare il meglio possibile per il tuo cliente.
Disporre di un assistito che si fida in maniera assoluta ti permette di compiere una scelta adeguata.
Fai l'interrogatorio. Naturalmente il giudice non fa una grinza e lascia il tuo cliente dietro le sbarre.
Come dici all'indagato, è ancora troppo presto. E soprattutto non si conosce ciò che il PM ha in mano. La cosiddetta discovery, ossia la rivelazione delle carte processuali, è lontana per il momento. Ti trovi nella fase in cui vanno compiuti timidi assaggi cautelosi. Sei al buio. Scrivi qualche breve memoria al PM oppure al Giudice tentando di interpretare cosa ci sia dietro il capo d'imputazione. In questi momenti l'attività dell'avvocato assomiglia al gioco al gioco del nascondino. Il riesame delle misure cautelari è sempre un rischio. Vai a tentativi. Fai una prima richiesta di arresti domiciliari al GIP ma devi motivarla. In questi casi è molto utile disporre di una situazione di salute non tanto florida. Ti consente di organizzare grandi memorie fondate sul concetto di incompatibilità dell'indagato con la struttura carceraria senza entrare nel merito. Ciò che importa in quei momenti non è il cuore del processo, quanto liberarsi dalla misura cautelare. È però in quel giro di giorni che il cliente viene colto dallo scoramento cruciale. Così i suoi familiari. La domanda che comincia a martellarli – anche di notte – è facile: ci saremo messi nelle mani di quello giusto? Non ci vorrà un avvocato di quelli davvero importanti?
Chiariamo una cosa.
È umano e comprensibile.
Sono i modi che di solito offendono.
L'avvocato che è stato nominato per primo non possiede l'esclusiva di un cliente. Quest'ultimo è in assoluto il vero dominus della sua vita e quindi può scegliersi chi vuole. Però, vedete, di solito a me è capitato quanto segue.
Dopo qualche mese che si provava l'assedio della misura cautelare senza che neanche un ponte levatoio di servizio venisse issato, mi ritrovavo un codifensore di fiducia alle costole. Una volta mi arrivò un fax dal neonominato difensore il quale mi informava di essere stato officiato, prima ancora che me ne dessero comunicazione i parenti del cliente.
Un'altra volta i genitori dell'indagato vennero in studio e partirono da molto lontano prima di dirmi che mi avevano sostituito.
A questo punto è altrettanto umano che in noi monti un sentimento a metà tra l'incazzato e il deluso. Una specie di rigurgito acido dal sapore sgradevole. Ci sentiamo come chi si è preparato a tirare un rigore dal dischetto senza sapere che verremo sostituiti un secondo esatto prima di calciare.
Quando capita, veniamo calati in una situazione davvero scomoda per il semplice motivo che il nuovo collega non lo abbiamo scelto noi.
Non abbiamo neanche avuto la possibilità di compiere quella scelta, ci avessero chiesto di valutarla, lo avremmo fatto.
Nessuno si sente onnipotente e in certi casi si è perfino felici di poter condividere il peso cinto di spine della difesa. Se ce lo avessero chiesto, però, avremmo scelto chi lavora con noi da tempo e soprattutto chi ci sentiamo complementare.
Un'équipe difensiva efficiente è fatta di persone che si completino a vicenda.
Non possono giocare nella stessa squadra avvocati molto lontani tra di loro per mentalità, cultura e stile. In questi casi i malintesi ed i dissapori non tardano a manifestarsi e chi ne farà le spese sarà sempre lui, il cliente. È sempre difficile abbandonare una difesa, per quanto cocente sia l'offesa di una nuova nomina ai nostri occhi e nei nostri confronti.
Magari è un processo in cui ci siamo spesi tanto.
Oppure siamo legati all'imputato anche da un rapporto di amicizia.
Quando si dà importanza a questo legame durante il nostro lavoro, il disastro è inevitabile.
Il fatto di essere amici non significa fare il lavoro gratis, cerchiamo di mettercelo in testa.
Bisogna sforzarsi in questi casi di pensare sempre professionalmente.
È difficile ma se non lo facciamo è un casino.
Il nuovo avvocato ci apparirà molto spesso come uno scienziato pretenzioso e decisamente incline a trattarci come il suo attendente di zona.
È veramente difficile decidere cosa fare in quei momenti ma non impossibile. L'esperienza mi ha insegnato una cosa che vi giro così come l'ho imparata a mie spese.
Se il cliente non ha avuto il coraggio di sedersi con voi – che cinque minuti prima aveva osannato come il suo salvatore – per dirvi che si sente più tranquillo se a difenderlo c'è anche un secondo avvocato, beh, allora non avete molto da perdere.
I clienti che non hanno la forza di dirci in tempi non sospetti che la loro tranquillità coincide con una duplice nomina, non sono affidabili, secondo me.
Se preferiscono porci davanti al fatto compiuto ed hanno anche l'improntitudine di far apparire la cosa come dovuta per imperscrutabili ragioni di stato, lasciamoli pure all'ultimo venuto.
È come quando si vuol punire l'uomo che ci ha soffiato la moglie.
La pena più terribile che possiamo infliggergli resta quella di lasciarlo solo con lei, la fedifraga.
Così – secondo me – bisogna comportarsi con questo tipo di clienti che in realtà non si sono mai fidati di noi.
Dobbiamo anche considerare se chi sta in carcere possieda autonomia decisionale.
È in grado di nominare un difensore con razionalità, capacità di discernimento oppure si fa portare dai venti verso lidi scelti da terzi?
Non bisogna essere ipocriti al riguardo.
Chi ci sostituisce o, peggio, chi ci mette un tutore alle costole, non incontrerà mai il nostro plauso.
Susciterà in noi un sentimento, anzi un'ondata di rabbia e stupore, nel migliore dei casi.
Quest'ultimo mettiamolo subito da parte.
Nessuno di noi è Perry Mason e, soprattutto, siamo soggetti fungibili, come il denaro, ossia possiamo essere sostituiti da un momento all'altro con qualcuno più abile di noi. Ma c'è modo e modo di piazzarcelo accanto. Inoltre, se volevamo essere comandati da un altro collega, lo avremmo scelto noi.
Non vi pare? Allora, in questi casi che si fa?
Oggi ho elaborato una teoria che è il frutto delle mie personali decisioni sbagliate.
Quando mi affiancavano qualcuno, naturalmente senza dirmelo mai prima, resistevo. Facevo finta di essere superiore.
Il chè mi è costato in termini epatici non poco, devo confessarlo.
Una volta mi è capitato una collega che – in sede di indagini difensive – ci comandava tutti come se fossimo dei soldatini. Anche le persone informate ridacchiavano.
A forza di sospiri il giorno delle indagini me ne andai dalla zona delle operazioni – chiamiamole così – con due polmoni che sembravano i mantici sfibrati di un fabbro medievale.
L'unico motivo che mi tenne avvinto a quella causa – in quel preciso giorno – fu l'assegno da incassare. Fu un buon motivo per subire e tollerare una situazione che mi appariva paradossale.
Oltretutto non ero neanche d'accordo sulla linea che la collega – appena arrivata – aveva deciso di seguire. Ovviamente non mi aveva domandato cosa ne pensassi. Il denaro, tuttavia, è un buon servitore ma un pessimo padrone. Dopo qualche mese mi divincolai come un cavallo da quella difesa che per me era diventata insopportabile. Ci passai su una notte bianca, come quelle di Dostoevskij.
Era accaduto che alla prima udienza dibattimentale ci fossimo trovati addirittura in tre. Prima eravamo partiti in due e tra di noi si andava d'accordo.
Il mio collega – quello che mi aveva scelto – era molto simpatico anche se incredibilmente verboso.
Però filavamo tutto sommato bene. Quando si infilò tra di noi il terzo incomodo, il sodalizio si ruppe quasi subito. Il motivo sta nel fatto che il terzo collega era stato scelto dal cliente senza neanche consultarci. O comunque consultarmi, visto che si trattava di un avvocato locale con me a più stretto contatto. In questi casi, quando la scelta non arriva dal professionista incaricato per primo, voglio dire una cosa. Mollate immediatamente il cliente, rassegnate il mandato, rinunciateci proprio, dismettete con estremo tempismo. Non posso dimenticare Carlo Federico Grosso, il professore torinese, che rinunciò immediatamente a difendere Anna Maria Franzoni quando questa nominò anche Carlo Taormina.
Non fece polemica, si dimise dal suo incarico e basta. Come è finita lo sanno tutti.
Chi ti ha nominato per primo e poi non si prende la cura di informarti di persona, faccia a faccia, che devi stare in panchina o comunque sei diventato una riserva, non merita il nostro tempo, credetemi.
Resta nel mio ricordo la grande eleganza di un mio cliente il quale – con estrema civiltà – mi chiese se – stante la delicatezza della causa – ritenessi necessario farmi affiancare da qualcun altro più anziano. Alla mia risposta che ce la potevo fare benissimo da solo, mi rispose di essere più contento così in quanto confidava in me e nella mia onestà professionale.
Sempre meglio comunque un taglio netto di forbice perché altrimenti il rapporto rischia di allungarsi tra rimbrotti e malumori e finisce che si esca in malo modo.
Il chè non va bene. Infine.
A me è accaduto un altro episodio che mi piace considerare sintomatico del tipo di rapporto instaurato con clienti di un certo tipo.
Difendo per anni una tizia. Ogni sua causa – incredibilmente – ha sempre un esito positivo.
I penali si concludono con delle assoluzioni e i civili non registrano neanche il pagamento di una lira in passivo.
Non è del tutto merito mio perché si tratta di uno di quei clienti ai quali una stella arride sempre in materia giudiziaria. Se siamo onesti, sappiamo di averne tutti in studio.
Una mattina mi squilla il telefono.
È molto presto.
Capisco che deve trattarsi di una notizia importante. È un giornalista che mi domanda cosa ho da dire sull'arresto di Tizia. Non ne so nulla. Dopo cinque minuti squilla di nuovo il telefono. È un altro giornalista che mi rivolge la stessa domanda. Dopo un'ora circa vengo a sapere che Tizia – arrestata – aveva nominato un mio collega per la sua difesa.
Restai di pietra.
Ma come, pensai, sono anni che ti assisto, non ti ho mai dato motivo di muovermi il menomo rimprovero e alla prima causa veramente importante mi congedi come un lacchè, anzi una specie di ronzino che deve farsi da parte per far correre un purosangue o presunto tale?
Davanti all'orbe giudiziario avevo fatto quella figura, in effetti.
Per anni anche i giornalisti mi avevano sempre associato a Tizia ogniqualvolta le accadesse qualcosa. Certo, non si era mai trattato di cause epocali, d'accordo, però in dieci anni circa ne avevamo attraversati di marosi insieme e posso assicuravi che nessuno dei due si era mai bagnato i calzini.
Quel rapporto di amicizia si ruppe.
Qualche anno dopo rividi la persona che mi spiegò – devo dire con impegno eccessivo – come quella fatidica mattina si fosse sentita sola perché non mi aveva trovato al telefono al momento dell'arresto.
Non mi aveva mai telefonato, però.
In realtà il suo rapporto con il mio collega era probabilmente risalente rispetto all'arresto.
Come un marito cornuto, però, ne ero stato messo al corrente a cose fatte.
Oggi non ho nulla da recriminare.
Sono dell'idea che ognuno debba farsi assistere da chi ritiene ma ogni cliente va sempre considerato un cliente e basta.
Mai dobbiamo trasformarlo in una persona vicina a noi soltanto per il mero decorso del tempo o per la fortuna che ci ha arriso nella conduzione delle sue cause. Stare tanti anni assieme a un cliente – con cui è sempre andato tutto bene – non ci garantirà mai da un suo inopinato voltafaccia. Quando un nostro errore, anche piccolo, gli darà fastidio, farà i bagagli senza neanche salutare. Dimenticherà le assoluzioni, il nostro impegno, la mattina presto in cui lo ab- biamo affiancato entrando in un'aula di ghiaccio da dove eravamo usciti nel primo pomeriggio baciati dal sole della assoluzione. Non ricorderà nulla.
Ci sostituirà con una scopa nuova fiammante che – non illudetevi – passerà i primi tempi a criticare il nostro operato. Evitiamo di umanizzare il nostro cliente. È pericoloso e ci conduce a patire delusioni tremende.
Chiudo questo capitolo raccontandovi ancora un'altra storia.
Avevo chiuso una causa di lavoro contro una grande azienda. Una vittoria insperata e davvero portentosa per quanto il giudice aveva scritto nella sua sentenza. Insperata, come vi dicevo.
Il primo grado ero riuscito a portarlo a casa, nonostante un fuoco di fila avversario molto determinato e scagliatomi da più colleghi.
Più anziani di me, più esperti, una specie di branco di lupi in polsini immacolati.
Era andata bene. Avevo vinto.
In quella fase siamo talmente euforici che mai penseremmo ad un nostro congedo da parte deiclienti ai quali abbiamo regalato una gioia remune- rata ma sempre consistente.
Avevo vinto, ripeto, e quindi anche a livello psico- logico stavo in pace con la mia coscienza. Chi vince non si cambia, così recita l'adagio. Per l'appello con cui controparte aveva impugnato la sentenza mi affiancarono un tizio che ancora oggi non so da dove sia uscito. Dopo un mese me ne ero già andato sbattendo la porta. D'altro canto importa poco vincere le cause, con i clienti.
Appare un paradosso, ma non lo è.
Il rapporto tra cliente ed avvocato è molto sottile, come un filo di seta. È di fiducia per definizione ma tutti noi sappiamo quanto sia fragile e come possa incrinarsi anche per un nonniente, come lo chiama lo chef fiorentino Picchi.
A volte rapporti pluriennali si incrinano per una sensazione, una specie di sentimento del contrario per cui pensiamo alle cose in un certo senso, ma ca- piamo dentro di noi come una data persona appaia cambiata,per quanto sia difficile ammetterlo.
Non fatevene un cruccio. Tutte le storie, come quelle d'amore, sono destinate a disfarsi nel tempo. Reinhold Messner dice che anche i deserti sono stati delle montagne. Per lui anche le Dolomiti – un giorno – si disferanno, come noi d'altro canto, esseri fragilissimi ed arroganti, incuranti della nostra perenne caducità.
Una sola parola può annientare un rapporto.
Un amico che avevo, che mi aiutò in alcune circostanze, e che io aiutai a mia volta anche di più, un giorno mi diede del deficiente perché avevo commesso un errore.
Confesso urbi et orbi di commettere errori con cadenza quotidiana ma non mi piace farmi dare del deficiente, soprattutto se sono pronto a riconoscerli, e cercare di ripararli scusandomi per la mia insipien- za. Lo mandai affanculo e da allora non ci siamo più rivolti la parola.
Intendo continuare così, che vi piaccia o meno. Resto dell'idea che non sia vitale perdere o vincere una causa. Per me resta davvero vitale il mio impegno, che devo profondere anche ai limiti dello spasimo psichico. Poi, che vada come deve andare.
So di certo che quell'impegno portato fino ai confini dell'estrema Thule è quanto mi serve per rispettarmi.
È questo, in fondo, che ricerco in ogni causa. Non importa se vinciamo o perdiamo.
Importa in quanto tempo riusciamo a realizzare di non essere indispensabili e in quanti minuti capiamo che neanche i nostri clienti – tutto sommato - lo siano per noi.
È questo il segreto.
Quando i clienti si comportano male, non abbiamo timore di mandarli a quel paese.
State pur certi che loro lo farebbero senza esitazione, al nostro posto.
Perciò, se vogliamo davvero considerarci liberi ed indipendenti, e riteniamo di essere nel giusto, non facciamoci remore.
Credetemi, si vive decisamente meglio.
Siamo liberi professionisti e quindi liberi di fare quello che vogliamo.
Compreso mandarle a dire di persona ai nostri clienti, non appena le circostanze ce ne diano l'occasione.
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