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Avvocato: sospensione legittima se, senza rinunciare al mandato, avvia un pignoramento a carico del cliente

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 Con la decisione n. 11933/2019, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno confermato la legittimità della sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale inflitta ad un legale che aveva intrapreso una procedura di pignoramento presso terzi a carico del proprio assistito per il recupero di un proprio compenso professionale, senza avere previamente rinunciato al mandato.

Si è difatti precisato che "la sanzione disciplinare della sospensione di due mesi comminata all'avvocato che abbia agito per credito professionale con pignoramento presso terzi nei confronti del proprio cliente perdurando ad assisterlo in appello è conforme sia al canone 46 del previgente Codice deontologico sia al canone 34 di quello attualmente vigente, in considerazione alla gravità del comportamento assunto dall'incolpato".

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dall'irrogazione della sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per due mesi inflitta ad un legale, riconosciuto responsabile della violazione di cui all'art. 46 del codice deontologico forense, vigente ratione temporis, per avere intrapreso una procedura di pignoramento presso terzi a carico del proprio assistito per il recupero di un proprio compenso professionale, senza avere previamente rinunciato al mandato.

In particolare, il legale aveva assistito una famiglia nella causa da costoro intentata davanti al Tribunale di Roma per il risarcimento dei danni a seguito della morte di un loro congiunto; conseguita una sentenza ritenuta non soddisfacente in ordine al quantum, affiancato nel patrocinio da altro legale, l'avvocato proponeva appello e, al contempo, non essendogli state corrisposte dai clienti le spese di lite nelle more corrisposte dalla compagnia assicuratrice, avviava talune procedure esecutive.

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina di Bologna ravvisava in tale condotta la violazione dell'art. 46 del codice deontologico forense nella parte in cui prescrive che l'avvocato può agire giudizialmente nei confronti della parte assistita per il pagamento delle proprie prestazioni professionali, previa rinuncia al mandato; alla luce di tanto, infliggeva la misura della sospensione di due mesi.

Il Consiglio Nazionale Forense condivideva le valutazioni del Consiglio Distrettuale di Disciplina, anche in merito all'entità della sanzione inflitta: particolare disvalore veniva rinvenuto alla luce delle modalità della condotta, avendo il legale avviato la procedura esecutiva subito dopo il deposito della favorevole sentenza di appello e prima ancora di avvertire il cliente, e per la rivestita carica di componente del COA di Rimini, cui si richiedeva il massimo rigore nel rispetto delle regole deontologiche, al fine di evitare atteggiamenti atti a recare disdoro all'istituzione rappresentata.

Ricorrendo in Cassazione il legale si doleva per aver il CNF ritenuto particolarmente grave la condotta contestata, in considerazione delle modalità di questa e della carica di componente del COA di Rimini rivestita dall'incolpato. 

Le Sezioni Unite non condividono le doglianze del ricorrente.

La Suprema Corte ricorda come l'art. 2 del codice deontologico, ratione tempore applicabile, rimetteva con grande ampiezza alla discrezionalità dell'organo disciplinare la concreta determinazione della pena, coi soli limiti dell'adeguatezza alla gravità dei fatti e della considerazione delle specifiche circostanze, soggettive ed oggettive, che hanno concorso a determinare l'infrazione.

Sul punto, gli Ermellini specificano che nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, gli elementi valutati in concreto per la determinazione della specie e dell'entità della sanzione non attengono all'an od al quomodo della condotta, ma solamente alla valutazione della sua gravità e devono, in sostanza, reputarsi quali meri parametri di riferimento a questo solo scopo, in quanto tali analoghi a quelli previsti dall'133 c.p., e dall'art. 133 bis c.p..

La sentenza impugnata ha compiutamente motivato sulla sussistenza di tutte le condizioni necessarie per giustificare l'irrogazione della sanzione più afflittiva, non attenendosi al mero aspetto dell'an o del quomodo della condotta, ma valutando la gravità nel suo complesso.

In conclusione, la Corte rigetta il ricorso 

 

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