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La "passione di libertà" di Alessandro Galante Garrone, dalle aule di giustizia alle lettere

La "passione di libertà" di Alessandro Galante Garrone, dalle aule di giustizia alle lettere

Alessandro Galante Garrone, avvocato, fu una figura di spicco della Resistenza e, soprattutto nei suoi anni tardi, un nume tutelare delle battaglie ideali dell'antifascismo. Per se stesso aveva coniato la definizione di mite giacobino, come recita peraltro il titolo della sua autobiografia scritta in collaborazione con il giurista Paolo Borgna e pubblicata nel 1994.

Galante Garrone, parallelamente alla sua attività forense, aveva condotto da sempre studi storici: questi ultimi finirono per assumere la preminenza fra le sue attività e lo indussero a chiedere nel 1963 il pensionamento dalla magistratura - era consigliere di Corte d'appello a Torino - per potersi dedicare in toto all'insegnamento - già da tempo prestava servizio come libero docente di Storia moderna all'Università di Torino. Garrone ha insegnato storia moderna, storia contemporanea e storia del Risorgimento italiano negli atenei di Torino e Cagliari ed ha pubblicato importanti studi sulla Rivoluzione francese, sulla storiografia rivoluzionaria e sul Risorgimento italiano.

Nel 1984 aveva pubblicato I miei maggiori, un omaggio ai maestri di libertà della sua generazione, da Omodeo a Calamandrei, da Einaudi a Salvemini, da ciascuno Galante Garrone aveva tratto spunti di vita e di pensiero, o come lui stesso diceva:

«...una passione di libertà sempre illuminata dalla ragione.»

Nel dicembre 1993 Galante Garrone era stato tra i fondatori, insieme ad Aldo Garosci, Franco Venturi, Arialdo Banfi, Giorgio Parri e Aldo Visalberghi, dell'associazione Movimento d'Azione giustizia e libertà. Una denominazione esplicita visto che i promotori del movimento erano partigiani della formazione Giustizia e libertà e militanti del Partito d'Azione: proprio a quelle posizioni politico-culturali questa associazione, come lo stesso Alessandro Galante Garrone, intendeva richiamarsi per sottrarle all'emarginazione voluta dal regime dei partiti e per rievocare la tradizione di pensiero di Gaetano Salvemini, la critica liberale di Piero Gobetti e il socialismo liberale di Carlo Rosselli.

Pubblichiamo un suo articolo, dal titolo "Le udienze sono ricominciate" (1956)

"Non so se Giuseppe Manfredini, nei suoi ultimi momenti, pensasse che la sua stoica e disperata morte avrebbe tanto commosso gli uomini che non lo conoscevano, come una testimonianza suprema di fede, un virile richiamo al dovere. Certo fu questo il significato terribile, eppure in fondo consolante, della sua fine; e certo il gesto ultimo di questo giudice, che si e tolta la vita perché non reggeva più al dubbio di aver pronunciato una sentenza ingiusta, resterà memorando negli anni a venire. Come a ragione hanno scritto Calamandrei e Monti. Ma l'amico che oggi scrive queste righe e ancora chiede, smarrito, al diletto compagno: "Ma perché lo hai fatto?", pensa soprattutto all'angoscia di quell'ultima ora, al disperato furore contro di sé che lo spinse d`un tratto a recidersi le vene, alla troppo grande e crudele solitudine di quell'alloggio cosi bello e nuovo che si era venuto preparando negli ultimi mesi, alla subitanea esplosione della primavera in quel luminoso pomeriggio del primo maggio. Tanti anni fa, caro Manfredini, tu, con quella tua aria di scherzoso corruccio, che così argutamente voleva nascondere una pena segreta, solevi dire, i primi annunci della nuova stagione: "Questa primavera mi sfotte". Forse tu non hai resistito, in quell'ultimo giorno, alla gioiosa prepotenza della luce che invadeva le stanze solitarie. Forse l'antica e profonda pena, che ti aveva accompagnato negli anni, e che gli amici intimi intuivano da certe tue sconsolate e amare confidenze, ti ha travolto, I tuoi dubbi per quella sentenza si sono ingigantiti, e, aggiunti al perpetuo rovello della tua coscienza, su quel fondo amaro e sconsolato e deserto che non riuscivi sempre a nascondere, ti hanno schiantato. E io non saprò mai darmi pace, io che pur ti ero amico da tanti anni e facevo ora parte della sezione da te presieduta, di non avere abbastanza insistito per esserti a fianco nel collegio giudicante, a dividere con le la responsabilità morale di quella sentenza, quale che fosse, e poi di non avere presagito la tragedia dell'animo tuo, e di essere stato lontano da Torino proprio quel giorno. Caro Manfredini, perdonami. Questo rimorso mi accompagnerà sempre. Oggi, in questo pomeriggio festivo inondato di luce come quello in cui ti davi la morte, io mi sforzo di ripensare al tuo umano destino, di riepilogare quel poco che so della tua vita stroncata. Un'adolescenza contristata dalla morte del padre in guerra, una giovinezza difficile, con madre e sorella sulle spalle.

Ancora da studente Manfredini aveva dovuto impiegarsi in una banca e lavorare duramente.Ma una decisiva esperienza era stata per lui l'amicizia, nata sui banchi di liceo, con Piero Gobetti. Quante volte Manfredini mi raccontò del meraviglioso adolescente, delle letture in comune, di "Energie Nove". Quel che fosse Gobetti per il diciassettenne Manfredini, e il gruppetto dei suoi primi amici, lo abbiamo letto in febbraio, in occasione del trentennio della morte di Piero. Scriveva Carlo Levi, sul "Contemporaneo", che l'adolescente Gobetti aveva qualcosa dei santi: "certo era fatto di quella loro natura, che si esprime negli altri, che suscita la vita intorno a sé, che fa crescere crescendo, che fa pensare pensando, e che, infine fa vivere, morendo". E ancora ricordava: "Ci trovavamo in quel suo salottino di via XX Settembre, con un tavolinetto basso e un canapé e una vetrinetta nell`angolo, la domenica mattina, a leggere Kant: lui, Manfredini, Ravera, io... Si leggeva, si commentava, si discuteva, si interpretava; [... ] arrivando, a poco a poco, a un sorta di felicità cosi eccitata che ci obbligava a muoverci: e la scioglievamo in partite amichevoli e violente di boxe o di scherma, con le mani aperte". Ragazzi: ma che avrebbero serbato per sempre il segno di quell'entusiastico fervore.Edmondo Rho scriveva sul "Ponte": "Gobetti ha influito in modo decisivo su tutti noi che siamo stati toccati dal suo lume...Era la nostra coscienza, ci aiutava ad essere noi stessi, il nostro io migliore, a farci ognuno secondo la propria legge... Ognuno coltivasse il suo giardino, il poeta cantasse, il pittore dipingesse, il filosofo ragionasse, però ognuno si sentisse voce di un coro, si aprisse alla più svariate esperienze, desse alla sua opera un respiro universale". E così "dal nostro gruppo dovevano uscire uomini e donne formati, con un serio senso della vita, con un orientamento ideologico e vasti interessi culturali, non distaccati nel chiuso orto dello specialista: pittori come Carlo Levi, giuristi come Giuseppe Manfredini, uomini di affari come Edoardo Ravera".

"Questa impronta di Gobetti era rimasta indelebile sul nostro Manfredini; egli stesso lo riconosceva volentieri, nelle sue lunghe conversazioni con me. Passione per il diritto (che lo aveva portato a iscriversi a legge e laurearsi brillantemente, in diritto romano; vivace, avida curiosità intellettuale; alcuni autori prediletti (Giordano Bruno, Kant, e su tutti Montaigne); un assoluto impegno morale e un'illimitata disposizione all'entusiasmo (che in lui aveva qualcosa di ingenuamente candido); un ironico distacco dalle piccole vicende e dai meschini travagli della carriera giudiziaria, e insieme uno scrupolo professionale di eccezionale serietà (e lo avrebbe purtroppo dimostrato con la sua stessa morte); un antifascismo rigoroso, anche se spesso venato di un amaro e deluso sconforto. ll lavoro giudiziario - svolto si può dire sempre al civile - lo aveva fisicamente logorato; e negli ultimi anni pareva a volte, agli amici, di avvertire qualche preoccupante segno di stanchezza, di esaurimento. Ma per poco che la sua mente si stendesse in riposata serenità, ecco subito balenare in lui, nei suoi motti arguti e nel suo focoso argomentare, un guizzo del gobettiano fervor giovanile.

Tante volte irrideva la vacuità dell'astratto discettare giuridico, e soleva dire, scherzando, che prima di morire avrebbe scritto un poderoso trattato dal titolo: De inutilibus quaestionibus, compendio di tutte le insulsaggini in cui s'cra imbattuto nelle controversie da lui studiate. Ma bisogna averlo visto, nei suoi giorni migliori, limare le sue sentenze con un gusto e uno scrupolo esasperati fino allo spasimo; o leggere e commentare le pagine di un grande magistrato, D'Aguesseau; o proporsi uno studio a fondo sul modo di funzionare della camera di consiglio. Fedele all'insegnamento di Gobetti, non si isolava nel suo chiuso orticello, ma sentiva il nesso della disciplina giuridica con gli altri campi della cultura, e con la vita, e non smarriva il senso umano dei problemi che quotidianamente gli si ponevano. Antifascista da sempre, era naturale che si legasse ancor più a quelli, degli amici e colleghi, che si erano dati alla Resistenza. Anch`egli silenziosamente si adoprò, in quegli anni, e il suo ufficio, al Tribunale di Torino, era diventato un recapito di staffette partigiane. Vincendo la naturale ritrosia, aveva finito per scrivere, dopo molte insistenze degli amici, un succoso saggio sui problemi della giustizia. Doveva uscire nei quaderni clandestini di Giustizia e Libertà, sotto il nome, che argutamente s`era dato, di Bartolo Stracca. Ma anche in questo il destino gli fu avverso: perché proprio quel manoscritto, unico fra tanti, andò smarrito, per una delle tante peripezie della vita clandestina; né più egli volle riscriverlo, com`egli amici incalzavano, tanto era la scettica, e un po' pigra, sfiducia nelle proprie forze. E anche questo oggi ci pesa, che sia andato perduto per sempre, e non lo si possa ripubblicare, quest'altro segno del suo alto pudico sentire, della sua fede in una giustizia nuova, aperta alle esigenze dei tempi.

Nei primi giorni della liberazione, era stato consigliere giuridico del CLN piemontese, poi era andato a Roma, consultare nazionale, designato dal Partito d'azione. E ci piace ricordare, di questa sua attività, la relazione per la revoca dalla carica di consultore di Emilio Patrissi (che aveva pronunciato sciagurate parole sul conto dei fuorùsciti del ventennio), presentata alla Commissione per gli affari politici e amministrativi della Consulta.

Poi, dopo una parentesi amministrativa all'ARRAR, aveva voluto riprendere il suo posto di magistrato. Perché credeva nel proprio lavoro, nonostante il gran brontolare e le frecciate contro i "sacerdoti di Temi",cui amava abbandonarsi. A conclusione di un articolo sulla Magistratura dallo Statuto carloalbertíno alla Costituzione della Repubblica, nell'auspicare la sollecita istituzione del Consiglio superiore, scriveva: "Quando la magistratura sarà veramente autonoma, con la creazione del suo organo supremo e con la formulazione di una legge sull'ordinamento giudiziario, coerente e conforme allo spirito che anima la Costituzione, la Repubblica avrà gli strumenti che consentiranno l'amministrazione della giustizia secondo i principi animatori del nuovo ordine. Resterà, però, sempre affidata alla scienza e alla coscienza dei magistrati la fiducia dei cittadini nell 'impero della legge. Questa fiducia sarà il primo fondamento del loro potere e della loro responsabilità".

"Questa coscienza del magistrato Manfredini lo aveva portato in Cassazione. Dopo quattro anni d'intenso lavoro a Roma, aveva voluto tornare alla sua Torino. E fu un correre incontro alla morte.Qui giunto sul finire del 1955, aveva assunto la presidenza della seconda sezione penale della Corte d'Appello. Questo lavoro (e posso ben dirlo io, che gli sedetti molte volte accanto, negli ultimi mesi) era per lui un perpetuo tormento di coscienza. In certi momenti m'era accaduto di spiare in lui, di fronte al dubbio di taluni casi giudiziari, certi bruschi vacillamenti di coscienza, come uno sbigottimento improvviso, una mortale stanchezza. Ma poi (e bastava una parola, un cenno, un sorriso di incoraggiamento), d'un subito ritrovava la serenità di una coscienza appagata, che ha vinto la tempesta del dubbio. Anche perché la soluzione, nel dubbio, era sempre quella suggerita dalla pietà, dall'umana comprensione e bontà.

Forse, in questo sfibrante logorio del giudizio penale, cui non era avvezzo, si preparo, senza che noi ce ne avvedessimo, l'improvviso schianto.Ora ben comprendo, Manfredini, la tua virile mestizia. La sentivo affiorare in te, sempre più spesso e, negli ultimi tuoi mesi, avevo cercato di parlartene, di liberartene. Ed ecco, in quel pomeriggio di sole, ti sei sentito infinitamente solo e triste. I dubbi per quella sentenza ti hanno turbato la mente no all'angoscia non più sostenibile. Hai creduto che, per essere giusto, più non ti restasse che immolarti. Forse, in quel momento, ti è balenata ancora dinanzi l'immagine di Piero Gobetti, con la sua eroica, ibseniana intransigenza. Forse hai riletto sull'ultimo fascicolo del "Ponte", che ho visto accanto al tuo tavolo, le parole alte e consolanti di Edmondo Rho su Piero Gobetti: "Lo ritrovammo ancora sempre, tutti dinanzi a noi, quel volto puro di arcangelo, a ricordarci la nostra giovinezza, a chiederci conto nostre azioni, a rimproverarci le nostre debolezze, a umiliare il no a rincuorarci. Ci ha insegnato a vivere, e, anche, a morire". Come tu volevi, Manfredini, ti abbiamo avvolto nella toga; e nella bara rinchiuso il codice. E così, in una luminosa mattina, ti abbiamo visto scendere nella fossa. Il giorno dopo, 4 maggio, ci siamo raccolti tutti nell'aula della prima sezione civile. Le ultime parola di saluto del Alvazzi Delfrate sono state queste: "Addio, amico. Ammainata ormai, è la bandiera a mezz'asta del Palazzo della Corte, non dai nostri cuori la tua figura. Noi ti amavamo.

Ci scaldava la tua bontà. Irriducibile, costituzionale bontà, che nessun'ombra velava, nessun improvviso corruccio sminuiva, men che meno quello che noi talora provocavamo per gioco: e a te, per un istante, si faceva di porpora l'ampio viso che neppure le lenti riuscivano a fare severo... A uno di noi, proprio alla vigilia della tua ultima ansia di giudice, avevi rivolto parole che non furono credute. "Tra le pagine aride", dicesti, "mi si smarrisce la mente. Che non sia l'ora, per me, di avere laggiù il mio pezzo di terra?". Oggi tu l'hai, amico, il tuo pezzo di terra. Sei nella grande calma. Noi invece, più stanchi, riprende inquieta la vita". In silenzio, abbiamo raggiunte le nostre sezioni, e le udienze sono ricominciate"

Torino, 10 maggio 1956, articolo su "Il Ponte". 

 

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