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Assegno divorzile, la Cassazione sanziona la scelta di non attivarsi per trovare lavoro

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Con l'ordinanza n. 3661 depositata lo scorso 13 febbraio, la I sezione civile della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla congruità dell'importo determinato dalla Corte territoriale in relazione ad un assegno divorzile, ha respinto le richieste di una donna secondo cui priva di rilevanza era la sua scelta di non attivarsi per trovare un'occupazione lavorativa.

Si è difatti precisato che se la solidarietà post coniugale si fonda sui principi di autodeterminazione e autoresponsabilità, si deve attribuire rilevanza alle potenzialità professionali e reddituali personali, che l'ex coniuge è chiamato a valorizzare con una condotta attiva facendosi carico delle scelte compiute e della propria responsabilità individuale, piuttosto che al contegno, deresponsabilizzante e attendista, di chi si limiti ad aspettare opportunità di lavoro riversando sul coniuge più abbiente l'esito della fine della vita matrimoniale.

Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, il Tribunale di Roma, pronunciando la cessazione degli effetti civili del matrimonio di una coppia di coniugi, poneva a carico del marito il pagamento di un assegno divorzile di 4.000 Euro mensili, tenuto conto della situazione reddituale della donna, la quale aveva lasciato il lavoro e gli studi universitari al momento della nascita del figlio in ragione di un'organizzazione della vita familiare concordata con il marito.

La Corte di Appello di Roma riduceva l'importo dovuto a euro 1.500: secondo il collegio giudicante, l'an del diritto all'assegno doveva essere quantificato avendo come indice di riferimento sia le condizioni di separazioni sia il comportamento della moglie che, a seguito della separazione, non si era mai attivata per reperire un'occupazione ed era divenuta erede dei ricchi possedimenti dei genitori.

Ricorrendo in Cassazione, la donna censurava la decisione della Corte di merito per come aveva proceduto alla quantificazione dell'assegno divorzile. 

In particolare rilevava come erroneamente la Corte d'appello aveva operato una riduzione della misura dell'assegno dovuto in ragione della mancata iniziativa assunta dall'appellata per reperire un'occupazione; a tal riguardo eccepiva che l'attitudine al lavoro avrebbe assunto rilievo solo se si fosse riscontrata l'esistenza di un'effettiva possibilità di svolgimento di un'attività lavorativa retribuita, adeguata alla qualificazione professionale e alla dignità della persona: elementi mancanti nel caso di specie.

La Cassazione non condivide le difese formulate dalla ricorrente.

In relazione ai criteri per la determinazione dell'assegno, i Supremi Giudici ricordano che il principio della ricostruzione del tenore di vita endoconiugale è stato superato dal noto arresto delle Sezioni Unite del 2018 (pronuncia n. 18287/2018), con la quale la Cassazione ha valorizzato il riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall'ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi, tramite la valorizzazione dell'intera storia coniugale nel suo completo evolversi e la realizzazione una prognosi futura che consideri le condizioni (di età, salute, etc.) dell'avente diritto.

Il giudice, comparate le condizioni economico patrimoniali delle parti e riscontrata l'inadeguatezza dei mezzi del richiedente e l'impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, è tenuto a verificare se la sperequazione sia la conseguenza del contributo fornito dal richiedente alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all'età dello stesso e alla durata del matrimonio: così, la quantificazione dell'assegno andrà compiuta non tenendo a parametro il pregresso tenore di vita o l'autosufficienza economica, ma in misura tale da garantire all'avente diritto un livello reddituale adeguato a un simile contributo. 

Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come la sentenza impugnata abbia compiuto tale valutazione, prendendo specificamente in considerazione come la moglie, già occupata presso una casa editrice come correttrice di bozze ed iscritta al corso di laurea in lettere, al momento della nascita del figlio aveva cessato di lavorare e lasciato gli studi universitari, in ragione di un'organizzazione concordata del menage familiare, provvedendo da sola all'accudimento della prole a cui il marito non poteva far fronte per gli impegni della sua carriera dirigenziale.

Tuttavia – alla luce dei nuovi criteri giurisprudenziali che superano una quantificazione parametrata al mero tenore di vita, e mirano ad accertare l'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive – correttamente l'accertamento dei giudici di merito si è proteso a rilevare la nuova situazione economica della donna (nelle more divenuta ereditiera di ingenti somme) e le sue effettive potenzialità professionali e reddituali valutabili alla conclusione della relazione matrimoniale.

Difatti, se la solidarietà post coniugale si fonda sui principi di autodeterminazione e autoresponsabilità, si deve attribuire rilevanza alle potenzialità professionali e reddituali personali, che l'ex coniuge è chiamato a valorizzare con una condotta attiva facendosi carico delle scelte compiute e della propria responsabilità individuale, piuttosto che al contegno, deresponsabilizzante e attendista, di chi si limiti ad aspettare opportunità di lavoro riversando sul coniuge più abbiente l'esito della fine della vita matrimoniale.

Compiute queste precisazioni, la Cassazione rigetta il ricorso. 

 

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