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Amministratore di sostegno: se è avvocato e difende se stesso, non matura il diritto al compenso

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Con l'ordinanza n. 6197 dello scorso 5 marzo in materia di compensi legali, la II sezione civile della Corte di Cassazione ha rigettato la richiesta di una legale di ottenere gli onorari maturati per l'attività svolta a favore della donna di cui era, al momento del conferimento dell'incarico, suo amministratore di sostegno.

Si è difatti specificato che, in virtù dell'art. 86 c.p.c. – che consente al rappresentante legale, quando anche in possesso dell'abilitazione all'esercizio dell'attività forense, di difendersi in giudizio personalmente – non si era posto in essere alcun contratto tra le parti, in quanto l'avvocato agiva quale amministratore di sostegno, che difendeva se stesso ex art. 86 c.p.c., senza che gli fosse stato previamente conferito alcun mandato professionale dalla rappresentata.

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dalla domanda presentata da un legale, volta ad ottenere il compenso per le prestazioni professionali prestate a favore di una cliente, di cui era stato amministratore di sostegno, per la difesa in giudizio in vari contenziosi civili.

Costituendosi in giudizio, la cliente, a ministero del suo nuovo amministratore di sostegno, si opponeva al provvedimento monitorio, deducendo il conflitto di interessi del legale. 

Il Tribunale di Venezia revocava il decreto ingiuntivo, ritenendo che nulla fosse dovuto al legale, che aveva agito quale difensore in giudizio dell'ingiunta, la quale però era anche sua assistita quale amministratore di sostegno.

La Corte di Appello di Venezia confermava la decisione, prospettando un conflitto di interessi. Difatti, secondo la Corte, essendo l'ufficio dell'amministratore di sostegno un munus pubblico gratuito, mentre il mandato professionale oneroso, si profilava un conflitto d'interessi che rendeva nullo il mandato professionale e quindi inesistente la pretesa di pagamento del compenso.

Il legale proponeva, quindi, ricorso in Cassazione, deducendo violazione dell'articolo 86 c.p.c., per aver la Corte di Appello ritenuto sussistente un conflitto d'interessi laddove questo non poteva sussistere in radice, in quanto l'art. 86 c.p.c. abilita l'amministratore di sostegno, anche avvocato, a difendere la parte in giudizio senza il bisogno di un mandato dell'amministrata, sicché non era venuto in essere alcun rapporto contrattuale tra lei e la patrocinata per le liti regolarmente autorizzate dal Giudice tutelare.

La Cassazione non condivide le doglianze sollevate dal ricorrente.

La Corte premette che l'art. 86 c.p.c. consente al rappresentante legale, quando anche in possesso dell'abilitazione all'esercizio dell'attività forense, di difendersi in giudizio personalmente.

Da ciò ne discende, con specifico riferimento al caso di specie, che alcun rapporto contrattuale professionale si era instaurato tra la rappresentata e l'avvocato, suo difensore e legale rappresentante, in quanto l'avvocato agiva quale amministratore di sostegno, che difendeva se stesso ex art. 86 c.p.c.. 

Alla luce di tanto, la Cassazione evidenzia come – sebbene non sia possibile parlare di conflitto d'interessi tra rappresentante e rappresentata, proprio per l'assenza di un mandato professionale conferito dalla rappresentata – il legale non poteva agire in giudizio chiedendo il pagamento del compenso professionale in assenza di un rapporto pattizio, poiché il rappresentante ritenne d'avvalersi della facoltà di difendere se stesso da solo, ex art. 86 c.p.c., ossia esercitò le funzioni di amministratore di sostegno e, non già, di patrono del cliente.

Il compenso per l'opera svolta, quindi, non può trovar soddisfazione nell'ambito del rapporto contrattuale avvocato - cliente regolato dalle tariffe professionali, bensì nell'ambito dell'equa indennità ex art. 379 c.c., in quanto richiamato ex art. 411 c.c., che deve esser richiesta al Giudice tutelare a compenso dell'opera prestata quale amministratore di sostegno.
In conclusione, la Corte dichiara rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità e al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso.

 

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