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Corrispondenza tra avvocati: divieti e sanzioni

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Inquadramento normativo: Art. 48 Codice Deontologico Forense

Corrispondenza tra avvocati: vige il divieto di produrre la corrispondenza scambiata tra avvocati, nei limiti tracciati dal nuovo codice deontologico forense il cui art. 48 – riprendendo quanto precedentemente statuito all'art. 28 – stabilisce che "l'avvocato non deve produrre, riportare in atti processuali o riferire in giudizio la corrispondenza intercorsa esclusivamente tra colleghi qualificata come riservata, nonché quella contenente proposte transattive e relative risposte".

Il secondo comma dello stesso art. 28 indica i casi in cui è lecito produrre la corrispondenza.

Finalità: il Consiglio Nazionale Forense (gennaio 2017) ha precisato che "la norma deontologica di cui all'art. 48 è stata dettata a salvaguardia del corretto svolgimento dell'attività professionale, con il fine di non consentire che leali rapporti tra colleghi possano dar luogo a conseguenze negative nello svolgimento della funzione defensionale, specie allorché le comunicazioni ovvero le missive contengano ammissioni o consapevolezze di torti ovvero proposte transattive. Ciò al fine di evitare la mortificazione dei principi di collaborazione che per contro sono alla base dell'attività legale".

Si è specificato, inoltre, che il precetto non soffre eccezione alcuna, men che meno in vista del pur commendevole scopo di offrire il massimo della tutela nell'interesse del proprio cliente" (cfr. CNF 2.3.2012 n. 33, CNF 27.10.2010 n. 159 e CNF 20.6.2005 n. 91).

Divieto di produzione: l'avvocato non deve produrre la corrispondenza intercorsa tra colleghi, che sia qualificata come riservata o che contenga proposte transattive.

La corrispondenza, oltre a non essere prodotta, non va neanche riferita in giudizio (per esempio trascrivendone il testo in un atto processuale), se ne può ottenere conoscenza deferendo alla controparte un interrogatorio formale vertente esclusivamente sul contenuto della missiva.

Di contro, è stata ritenuta ammissibile la sintetica menzione negli atti di causa di precedenti trattative tra le parti rimaste senza esito, purché ovviamente non venga rivelato il contenuto delle stesse.

Il divieto de quo vale anche qualora il mittente sia un avvocato che agisce in proprio, vista l'applicabilità del Codice Deontologico, ex art. 2, a tutte le attività professionali svolte dall'avvocato, senza distinguere tra quelle in cui agisca anche in proprio e quelle, invece, in cui agisca esclusivamente come difensore.

Corrispondenza tra colleghi: per corrispondenza si intende qualsiasi forma di comunicazione tra colleghi, avvenuta sia tramite missive scritte che a voce. Inoltre, con l'evoluzione dei mezzi di comunicazione – e di comunicazione certificata – si è assistito ad un doveroso ampliamento della categoria di comunicazioni riservate, che ad oggi ricomprende altresì le mail e le p.e.c. ovvero qualsiasi messaggio atto a veicolare informazioni "confidenziali" inerenti la controversia anche in assenza della specifica indicazione di riservatezza del contenuto della missiva. 

Lettere riservate: il codice riferisce espressamente il divieto alla corrispondenza qualificata come riservata.

Non sussistono dubbi sul divieto di produzione delle comunicazioni ove il collega abbia espressamente inserito la clausola di riservatezza: la qualificazione di riservatezza operata dall'avvocato, infatti, non consente alcuno spazio valutativo e deliberativo circa la producibilità della corrispondenza stessa.

Diverso è, invece, il caso in cui il collega mittente – pur qualificando la corrispondenza come riservata – ne autorizzi la produzione ovvero nella missiva siano metta in copia altri soggetti terzi non vincolati dal divieto in esame: in tali ipotesi, infatti, la produzione è consentita.

In relazione, invece, alle missive prive della qualifica di "riservata e personale", il CNF è orientato a considerare, piuttosto che la veste formale data alla corrispondenza con indicazione della sua riservatezza, il suo contenuto di sostanza, specialmente laddove in esso possano essere ravvisabili elementi destinati ad incidere sull'assetto di interessi e sulle situazioni giuridiche oggettive della parti rappresentate: in tale specifico caso, infatti, dovrebbe ritenersi che la corrispondenza non è producibile, altrimenti le trattative tra avvocati diverrebbero pressoché impossibili, in quanto ciascuno rivelerebbe solo ciò che ritiene utile alla propria causa.

In relazione alla possibilità di produrre in giudizio una propria lettera qualificata come riservata, il Cnf (pronuncia n.177/2017) ha specificato che il divieto di produrre la corrispondenza riguarda anche quella propria, giacché il codice deontologico non distingue tra mittente e destinatario; inoltre, la ratio della norma (che mira a garantire la libertà di corrispondenza tra colleghi) sarebbe vanificata se il mittente della lettera riservata potesse di propria iniziativa far cadere tale qualifica, producendo in giudizio la missiva.

Transazioni: a prescindere dalla presenza o meno della dicitura "riservata", non sono producibili in giudizio tutte le missive che contengano proposte transattive e le relative risposte; sul punto, il CNF (pronuncia 92/2014) ha specificato che la riservatezza "colpisceanche le comunicazioni scambiate tra avvocati nel corso del giudizio, e quelle anteriori allo stesso, quando le stesse contengano espressioni di fatti, illustrazioni di ragioni e proposte a carattere transattivo, ancorché non dichiarate espressamente 'riservate'".

In tal caso, il divieto di produzione assume la valenza di un principio invalicabile di affidabilità e lealtà nei rapporti interprofessionali, in quanto la norma mira a tutelare la riservatezza del mittente e la credibilità del destinatario ma anche "l'attuazione della sostanziale difesa dei clienti che, attraverso la leale coltivazione di ipotesi transattive, possono realizzare una rapida e serena composizione della controversia" (CNF N. 159/2010).

Esclusioni: il secondo comma dell'art. 48 indica i casi in cui la produzione della corrispondenza sia espressamente consentita dal Codice Deontologico ossia:

- quando costituisca perfezionamento e prova di un accordo: una volta raggiunto un accordo transattivo, anche le lettere riservate precedenti risultano producibili come conferma e prova dell'accordo raggiunto e del suo contenuto; in tal caso il perfezionamento dell'accordo deve necessariamente essere documentabile, perché rappresenta il superamento della lite che è poi lo scopo insito in una transazione;

- quando assicuri l'adempimento delle prestazioni richieste (qui il canone deontologico ha essenzialmente finalità di trasparenza nel senso di non potersi celare dietro la clausola di riservatezza ad esempio laddove si era assicurato l'effettuazione di un pagamento). 

 Comunicazioni al cliente: il terzo comma dell'art. 48 – disciplinando i rapporti tra avvocato e cliente – specifica che "l'avvocato non deve consegnare al cliente e alla parte assistita la corrispondenza riservata tra colleghi; può, qualora venga meno il mandato professionale, consegnarla al collega che gli succede, a sua volta tenuto ad osservare il medesimo dovere di riservatezza.

In seguito alla cessazione di una mandato professionale, bisogna valutare quale documentazione possa o non possa essere consegnata al cliente, tenuto conto del fatto che la corrispondenza riservata rimane tale sia in corso di mandato sia a mandato cessato.

È' buona prassi, piuttosto che consegnare la documentazione al cliente, farla pervenire direttamente al nuovo difensore, il quale a sua volta dovrà rispettare il preesistente vincolo di riservatezza con cui è stata eventualmente qualificata la corrispondenza.

Il divieto riguarda solo la consegna della corrispondenza, mentre è del tutto legittimo e doveroso riferire il contenuto della stessa al cliente in ossequio ai doveri di informazioni di cui all'art. 27 del medesimo Codice Deontologico.

Sanzioni: ai sensi del quarto e quinto comma dell'art. 48, l'abuso della clausola di riservatezza costituisce autonomo illecito disciplinare; la violazione dei divieti comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della censura. La sanzione inflitta, quindi, ha uno scarso valore "repressivo" e non pregiudica in alcun modo lo svolgimento dell'attività professionale dell'avvocato che ha commesso la violazione del principio deontologico.

Illecito civile: sul presupposto che le norme del codice deontologico forense costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo (SS.UU. n. 26810/2007), è tesi pacifica quella per cui la loro violazione comporta l'infrazione di un precetto giuridico, e quindi sempre anche un illecito civile: Nell'ambito della violazione di legge va compresa anche la violazione delle norme del codice deontologico dell'Ordine professionale, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all'albo degli avvocati che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell'illecito disciplinare." (Cass. Sez. Unite n. 5776/2004).

Ne consegue che l'infrazione deontologica, nel contesto di un procedimento, determina da un lato violazione delle regole processuali e dall'altro può essere sia fonte di responsabilità extracontrattuale nei confronti della controparte e dell'avvocato che la rappresenta(con conseguente obbligo risarcitorio nei confronti di entrambi) che fonte di una responsabilità contrattuale dell'avvocato nei confronti del cliente, alla luce del principio di esecuzione del contratto (d'opera professionale) secondo buona fede ex art. 1375 cod. civ..

Anche la giurisprudenza di merito (Tribunale di Udine del 23.2.1999) ha affermato che "(…) una condotta illecita sotto il profilo deontologico che comporti un danno per un professionista concorrente trova sanzione in sede civile secondo i principi generali dell'atto illecito, atteso che la violazione delle norme interne della categoria professionale è sufficiente per qualificare il fatto compiuto come ingiusto".

 

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