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Se difendi un criminale sei l’avvocato del diavolo: ecco perché è importante ricordare che la difesa è espressione di civiltà.

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 "Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso che egli abbia violato i patti coi quali le fu accordata" (Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, 2006).

Nel 1997 il regista Taylor Hackford diresse un thriller ispirato al romanzo di Andrew Neiderman ed intolato l'avvocato del diavolo.

Protagonista del libro è un (ottimo) avvocato penalista che, nello sviluppo progressivo del romanzo, prende atto dell'effettiva fonte del proprio talento: è il figlio del diavolo.

La versione cinematografica del romanzo ha ottenuto un discreto successo e, molto probabilmente, numerosi saranno stati gli spettatori che, al termine del film, hanno concordato sul fatto che un avvocato che difenda un criminale efferato non possa che essere privo di scrupoli.

Ciò che non tutti gli spettatori del film hanno colto, tuttavia, è che, nel contesto della storia, la discesa verso gli inferi del protagonista non è determinata tanto dal fatto di difendere autori di reati efferati, quanto, piuttosto, dal movente che lo spinge a farlo: la vanità.

Andrew Neiderman, l'autore del romanzo, ha dunque saputo distinguere tra la il ruolo sociale dell'avvocato e la sua motivazione interiore.

L'interiorità sicuramente si esprime attraverso gli atteggiamenti esteriori, ma, quando ci si trova dinanzi ad attività che sono rese necessarie dal ruolo che si riveste, allora l'equazione "(fai) x (allora) = (sei) x" non risulta più essere quella adatta a risolvere il problema e, se ugualmente applicata, non esprime più il valore giusto.

Infatti, l'esercizio di una funzione non trova il proprio movente nella volontà, ma in una necessità esteriore, qualificata come essenziale dalla collettività.

Ciò è quanto accade per l'attività difensiva, che, nel processo penale, trae la sua giustificazione dalla presunzione di non colpevolezza, ossia da quel fondamentale principio in base al quale nessuno può essere ritenuto colpevole fino a prova contraria: durante il processo, ha chiarito la Corte Costituzionale, l'imputato non deve essere considerato né innocente, né colpevole, ma solo imputato.

Proprio per tale motivo, qualsiasi persona, anche l'autore del peggiore dei crimini, va processata e, durante il processo, va difesa, e la difesa salvaguarda il rispetto non solo del diritto sostanziale, ma anche di quello processuale, altrimenti aver elaborato delle regole processuali non avrebbe avuto alcun senso.

La presunzione di non colpevolezza è, dunque, ciò che rende essenziale l'attività difensiva, che non è, quindi, una scelta del difensore, ma un dovere giuridico.

La doverosità della funzione difensiva sembra, però, oggi sfuggire alla maggior parte della popolazione, come dimostrato dai numerosi episodi di inciviltà cui si assiste quando un avvocato assume la difesa di persone accusate di reati particolarmente cruenti, l'ultimo dei quali risalente a pochi giorni fa, dopo che è stata resa nota la sentenza che ha condannato a 20 anni di reclusione la madre che ha ucciso a coltellate il figlio di appena due anni.

La notizia ha dato il via ad un vero e proprio linciaggio mediatico a carico dei due difensori della donna, tanto che il Consiglio dell'Ordine di appartenenza dei due legali ha diramato un comunicato in cui ha espresso piena solidarietà e vicinanza nei confronti dei due professionisti resisi responsabili solo di aver adempiuto al proprio ruolo difensivo.

Personalmente, non ritengo che tali comportamenti siano la conseguenza diretta dell'estro creativo degli autori dei legal thriller, anche perché, avvocato del diavolo a parte, in genere in questi tipi di romanzi il difensore protagonista è un impavido, che non esita, pur di difendere il proprio assistito, ad inimicarsi con banche e multinazionali, assistite da un team di difensori dotati di una forte dose di aggressività, arrivismo e slealtà, ma altrettanto incapaci, dal momento che perdono sempre le cause, tanto che il loro assistito, multimiliardario proprietario della multinazionale, al termine della storia finisce sempre col dirgli "inetti, vi faccio radiare dell'albo". 

Penso, invece, che sul modo (distorto) di interpretare l'attività difensiva degli avvocati abbiano avuto incidenza diretta sia i mezzi di comunicazione di massa che un diffuso disinteresse per le categorie concettuali del diritto penale ed in particolare per la presunzione di non colpevolezza.

Il giornalismo disinformato, che specula sulla curiosità del pubblico, che alimenta nevrosi (come se in giro non ve ne fossero già abbastanza), che per l'audience è disposto anche ad instillare nell'opinione pubblica false convinzioni, come quella secondo cui il difensore è complice del reo, è sicuramente la scintilla che mette in moto l'ingranaggio.

E' importante, pertanto, che si trovi il giusto bilanciamento tra le opposte esigenze che si scontrano sul terreno dell'informazione giudiziaria: da un lato il diritto di cronaca e dall'altro i diritti delle persone coinvolte nel processo (avvocati compresi).

Nella ricerca di tale equilibrio, gioca sicuramente un ruolo fondamentale la presunzione di non colpevolezza, che deve orientare sia la scelta degli argomenti da trattare che il modo in cui esporli.

La difesa tecnica, è espressione di civiltà e non ha come scopo finale quello di assicurare l'impunità delle persone, ma quello di evitare il regresso della società ad uno stato di barbarie, in cui la libertà di chi è colpito da un'accusa è lasciata all'arbitrio del potere.

Sia chiaro che si tratta della libertà di tutti, anche di coloro che offendono e denigrano sui social. 

 

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