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Sì al gratuito patrocinio all’imputato condannato per il reato di cessione di sostanze stupefacenti di lieve entità.

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Con la sentenza n. 223/22, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. spese di giustizia), nella parte in cui ricomprende anche la condanna per il reato di cui al comma 5 dell'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (T.U. delle leggi in materia di stupefacenti), qualora ricorrano le ipotesi aggravate previste dall'art. 80, comma 1, lettere a) o g), del medesimo t.u. stupefacenti, tra quelli la cui condanna definitiva determini, in capo al reo, una presunzione di superamento dei limiti di reddito per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato.  

A fondamento della decisione, il rilievo secondo cui la disposizione in oggetto - che nella sostanza introduce una presunzione di superamento dei limiti di reddito per ottenere il patrocinio a spese dello Stato, nel caso in cui il soggetto richiedente sia stato, in precedenza, condannato in via definitiva per i fatti di reato puniti dall'art. 73 t.u. stupefacenti, in presenza di una delle circostanze aggravanti di cui all'art. 80 del medesimo testo unico  - si ponga in contrasto, per incoerenza rispetto allo scopo perseguito dalla norma, con l'art. 3 Cost., nella parte in cui ricomprende nel proprio ambito di applicazione anche i fatti di lieve entità, di cui al comma 5 dello stesso art. 73.

I fatti di piccolo spaccio, affermano i giudici costituzionali, si caratterizzano, infatti,  per un'offensività contenuta, essendo modesto il quantitativo di sostanze stupefacenti oggetto di cessione, pertanto non è ragionevole, rispetto a tali fattispecie, presumere che la "redditività" dell'attività delittuosa sia stata tale da determinare il superamento da parte del reo dei limiti di reddito contemplati dall'art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 per ottenere l'ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.

Il "piccolo spaccio" – prosegue la Corte - quand'anche aggravato ai sensi dell'art. 80, è privo dell'idoneità ex se a far presumere un livello di reddito superiore alla (peraltro non esigua) soglia minima dell'art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 (id est un reddito IRPEF di circa mille euro al mese), in ragione dei proventi derivanti dall'attività criminosa; è, anzi, vero il contrario: si tratta spesso di manovalanza utilizzata dalla criminalità organizzata e proveniente dalle fasce marginali dei non abbienti, ossia di quelli che sono sprovvisti dei mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione (art. 24, terzo comma, Cost.).

La scelta del legislatore di revocare il gratuito patrocinio a chi è stato condannato per spaccio di stupefacenti di lieve entità, supera, perciò, la soglia della manifesta irragionevolezza, intesa come contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore - nel caso di specie rappresentato dalla necessità di evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con attività delittuose, possano paradossalmente fruire del beneficio dell'accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, per dettato costituzionale (art. 24, terzo comma), ai non abbienti - e la disposizione espressa dalla norma censurata.

Infine, conclude la Consulta, la disposizione censurata, poiché rende più gravoso l'onere probatorio posto a carico del richiedente per essere ammesso (o per conservare) il beneficio, si pone in contrasto con l'art. 24 della Costituzione: quest'onere ulteriore e maggiore, differenziato rispetto al regime ordinario, costituisce un ostacolo ingiustificato all'accesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, per chi è stato condannato per il reato di cessione di sostanze stupefacenti di lieve entità (o condotta equiparata) e va, pertanto, espunto dall'ordinamento.

 

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