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Sanzionabile con il licenziamento chi dileggia i colleghi.

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Dileggiare una collega a causa del suo orientamento sessuale davanti a terze persone non è semplicemente un'espressione di patente maleducazione, ma una vera e propria intrusione nella sfera intima e privata della persona. Tale condotta, dunque, viola non solo i principi costituzionali, ma anche la normativa antidiscriminatoria ed il diritto alla riservatezza.  

 La corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 7029/2023 ha respinto il ricorso di un autoferrotranviere che era stato licenziato per aver pronunciato, nei confronti di una collega, frasi sconvenienti ed offensive ad alta voce, alla presenza di altre persone.

Più nel dettaglio, il ricorrente, in attesa di prendere servizio insieme alla collega alla fermata dell'autobus, dopo aver appreso che quest'ultima aveva da poco partorito due gemelli, aveva iniziato a farle domande, dicendole, in forma dialettale "ma perché, sei uscita incinta pure tu" e, ancora "ma perché non sei lesbica tu" e, quindi, con fare derisorio "e come sei uscita incinta".

La società datrice, ritenendo che tale accadimento avesse leso non solo i diritti della lavoratrice offesa, ma anche l'immagine dell'azienda (ciò dal momento che il fatto era accaduto mentre i due erano in divisa e, dunque, riconoscibili come dipendenti della società), licenziava il dipendente per giusta causa.

Il recesso veniva impugnato dal lavoratore, il quale eccepiva la sproporzionalità della sanzione espulsiva rispetto al fatto contestato.

Secondo la difesa del lavoratore, gli apprezzamenti sulla sfera sessuale di una collega, pur configurando una condotta sicuramente inurbana, non erano stati tali da giustificare la sanzione espulsiva.

La tesi del lavoratore ricorrente, rigettata in primo grado, veniva, invece, condivisa dalla Corte d'Appello, che, dichiarata l'illegittimità del recesso, condannava la società datrice al pagamento, in favore del lavoratore, di un importo pari a venti mensilità della retribuzione globale di fatto.

Secondo i giudici di legittimità, chiamati a pronunciarsi sul ricorso proposto dalla società datrice, la giusta causa di licenziamento prevista dall'art. 2119 c.c., richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione sia dei fattori esterni relativi alla coscienza generale che dei principi richiamati dalla norma che risulta applicabile alla fattispecie.

In riferimento alla coscienza generale, è stato evidenziato come negli ultimi decenni sia maturata la consapevolezza che qualunque scelta di orientamento sessuale meriti rispetto e che essa attiene alla sfera intima e assolutamente riservata della persona.

L'intrusione in tale sfera, non può, pertanto, essere considerata secondo il modesto standard della violazione di regole formali di buona educazione, specie se effettuata con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone.

La gravità del comportamento invadente della sfera sessuale altrui deve, invece, essere valutata tenendo conto della centralità dell'individuo e della rilevanza assegnata dalla Carta Costituzionale ai diritti inviolabili dell'uomo, al riconoscimento della pari dignità sociale senza distinzione di sesso, al pieno sviluppo della persona umana, al lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell'individuo, oggetto di particolare tutela in tutte le sue forme e applicazioni.

Quanto alla necessità di prendere in considerazione i principi normativi, la Cassazione ha ricordato come nel caso prospettatole entri in gioco sia la disciplina antidiscriminatoria contenuta nel Decreto Legislativo n. 198 del 2006 (c.d. Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), il cui articolo 26 stabilisce che "sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo", sia la generale esigenza di riservatezza relativa a dati sensibili riferibili alla persona, tra cui rientra senz'altro quello relativo all'orientamento sessuale.

Riconducendo la condotta del ricorrente ad un mero comportamento inurbano, e, dunque contrario solo alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, il giudice del merito, secondo quanto si legge nell'ordinanza, non ha fatto corretta applicazione di tali principi, pertanto la Corte, dopo aver cassato la sentenza impugnata, ha rinviato la decisione al giudice del merito per il riesame della complessiva fattispecie, al fine della verifica della sussistenza della giusta causa di licenziamento . 

 

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