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Responsabilità medica: condanna per il medico che dimette un paziente con dolore toracico

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 Con l'ordinanza n. 20754 depositata lo scorso 30 settembre, la III sezione civile della Cassazione, chiamata a esaminare la responsabilità civile di una guardia medica per aver dimesso un paziente che accusava dolore toracico, ha accolto la richiesta di risarcimento danni avanzata in sede civile, respingendo la tesi difensiva del sanitario secondo cui, quand'anche avesse tenuto sotto osservazione il paziente, avrebbe ricevuto l'esito del dosaggio enzimatico a distanza di quattro ore dall'accesso del paziente al pronto soccorso, così che non si sarebbe potuto diagnosticare l'infarto in corso in tempi rapidi.

Si è invece ritenuto che una diversa condotta del medico, improntata ad un adeguato controllo del paziente, avrebbe consentito l'adozione di tempestive misure terapeutiche al primo insorgere di segni che deponessero per un infarto miocardico acuto e, pertanto, avrebbe potuto con buone probabilità evitare il decesso dell'uomo.

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dalla richiesta di risarcimento di tutti i danni, comprensivi dei danni biologici, patrimoniali, morali e alla vita di relazione, avanzata dagli eredi di un uomo deceduto a seguito di un collasso cardiocircolatorio in una struttura ospedaliera.

Gli attori esponevano che il loro congiunto si recava in ospedale di notte accusando un dolore toracico severo e prolungato, con l'esame ECG recante alterazioni; visitato dal medico di guardia presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale, veniva dimesso con diagnosi tranquillizzante, senza che il sanitario, sospettando della possibilità di un infarto in corso, lo sottoponesse alla necessaria osservazione.

Il Tribunale di Catania accoglieva la domanda, condannando il medico e la USL – in solido – al pagamento di 772 milioni di lire, oltre accessori.

La Corte d'Appello di Catania riformava la sentenza di primo grado, respingendo la domanda risarcitoria nei confronti del medico.

A seguito di ricorso per cassazione proposto dagli eredi, la Cassazione cassava la sentenza impugnata, deducendone la contraddittorietà e apoditticità della motivazione nella parte in cui aveva escluso che la condotta del sanitario fosse censurabile sotto il profilo della negligenza e della imperizia e che avesse avuto incidenza causale nella morte del paziente.

La Corte di Appello di Catania, pronunciandosi in sede di rinvio, esaminata la posizione del sanitario anche alla luce dell'ulteriore c.t.u., ne affermava la responsabilità, ritenendo la sua condotta censurabile, oltre che legata da un nesso di causalità all'evento letale verificatosi.

Il sanitario, ricorrendo in Cassazione, denunciava l'omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, dolendosi per non aver la Corte territoriale valutato attentamente le risultanze della c.t.u. laddove aveva ritenuto irrilevante sul piano causale l'omissione del medico: nella c.t.u., infatti, era emerso che il controllo del dosaggio enzimatico in uso all'epoca dei fatti non avrebbe potuto offrire risultati prima di quattro-otto ore dal prelievo e pertanto, quand'anche fosse stato effettuato dal medico, l'esito non sarebbe stato disponibile nell'arco di poco più di due ore intercorso fra il primo accesso al pronto soccorso e il decesso della vittima.

La Cassazione non condivide le censure rilevate. 

La Corte evidenzia come il "fatto" di cui il ricorrente lamenta l'omesso esame risulta invero considerato dalla Corte d'Appello, che non l'ha tuttavia valutato come decisivo al fine di ritenere esente da colpa la condotta del medico e di escludere il nesso causale fra la stessa e il decesso della vittima.

Difatti, la Corte del rinvio, pur dando atto che all'epoca occorrevano 4-8 ore per rinvenire gli enzimi a livello ematico, ha ritenuto tale referto non fosse decisivo al fine di diagnosticare (o escludere la possibilità di diagnosticare) l'infarto: la c.t.u. aveva evidenziato come la situazione esistente all'atto del primo ingresso del paziente in ospedale ne imponesse l'osservazione ospedaliera, pur a fronte dell'impossibilità di disporre tempestivamente del dosaggio degli enzimi; alla luce di tanto si è concluso che fosse illogico sostenere che la causa più probabile della morte fosse da ricondurre ad un evento improvviso e imprevedibile, tale da non poter essere fronteggiato nemmeno se il paziente fosse stato trattenuto in ospedale, e non piuttosto ad una patologia cardiaca.

Correttamente, pertanto, la Corte di appello è giunta a ritenere che una diversa condotta del medico, improntata ad un adeguato controllo del paziente, avrebbe consentito l'adozione di tempestive misure terapeutiche al primo insorgere di segni che deponessero per un infarto miocardico acuto e, pertanto, avrebbe potuto con buone probabilità evitare il decesso dell'uomo.

La Corte rigetta quindi il ricorso, con condanna del ricorrente al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale. 

 

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