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Con la sentenza n. 6917 pubblicata lo scorso 11 marzo, la II sezione della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su una domanda di risarcimento danni avanzata a seguito di una costruzione eretta in violazione delle norme sulle distanze tra edifici, ha ridotto il notevole importo riconosciuto dalla Corte di Appello, sul presupposto che in tema di violazione delle distanze tra costruzioni, il danno che subisce il proprietario confinante deve ritenersi "in re ipsa", senza necessità di una specifica attività probatoria; tuttavia, la determinazione di tale danno, ancorché effettuata in via equitativa, deve ancorarsi a parametri ben definiti, tenendo conto altresì del deprezzamento di valore commerciale dell'appartamento.
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dalla costruzione, all'interno di una zona produttiva di espansione, di un immobile eretto in violazione sia delle distanze tra pareti finestrate, che delle distanze dal confine e delle altezze e volumetrie.
Il proprietario dell'immobile confinante con il lotto di nuova costruzione conveniva in giudizio il committente di quest'ultimo stabile, affinché fosse condannato alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni subiti.
Il Tribunale di Ancona, in parziale accoglimento della domanda attorea, condannava il convenuto al pagamento in favore dell'attore, a titolo di risarcimento dei danni, di 40.000,00 euro.
La Corte d'Appello di Ancona, sulla base dei rilievi delle espletate consulenze tecniche, riteneva che il fabbricato di nuova costruzione non violasse le norme in materia di distanze, sia avuto riguardo al distacco tra edifici (risultando a distanza di 11,95 metri dal fabbricato vicino, a fronte di una distanza minima di 10 metri) sia della distanza dal confine, superiore a quella prescritta di 5 metri.
La Corte, tuttavia, riconosceva la sussistenza di una riduzione della facoltà di godimento del proprietario confinante, in conseguenza della realizzazione di un terrapieno e della maggiore altezza del fabbricato rispetto a quanto consentito dalle disposizioni urbanistiche in relazione alla diminuzione di visuale, esposizione, luce, aria sole ed esposizione.
Per tali ragioni, ritenuto che a seguito della costruzione si fosse determinata riduzione di valore dell'immobile dell'attore, condannava il convento al risarcimento del danno, liquidato in euro 84.088,00.
Avverso la sentenza, il proprietario della nuova costruzione proponeva ricorso per cassazione, denunciando motivazione assente, distorta e contraddittoria, in relazione all'art. 360 nn. 3) e 5) c.p.c., per avere la Corte ritenuto sussistente un danno escluso dalle consulenze tecniche d'ufficio.
In particolare, riportandosi al contenuto della ctu espletata – secondo la quale doveva escludersi che dalle violazioni in oggetto potesse scaturire un apprezzabile pregiudizio per il fabbricato confinante, ravvisando soltanto una modesta diminuzione di luminosità, ritenuta peraltro non influente sul valore economico dello stesso – la difesa dell'uomo evidenziava come la sentenza impugnata, avesse quantificato un danno molto ingente sulla base di una motivazione assente, distorta e contraddittoria.
La Cassazione condivide la censura formulata.
Premesso che le controversie tra proprietari di fabbricati vicini, aventi ad oggetto questioni relative all'osservanza di norme che prescrivano distanze tra le costruzioni o rispetto ai confini (ivi comprese le norme del regolamento edilizio locale disciplinanti solo l'altezza degli edifici, senza considerare la distanza intercorrente tra i fabbricati), appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, cui è devoluta ogni questione relativa al risarcimento dei danni, ma non anche quelle volte alla riduzione in pristino del manufatto, gli Ermellini evidenziano come sia del tutto errata la quantificazione del danno risarcibile compiuta dalla Corte territoriale.
In punto di diritto si specifica che, secondo la giurisprudenza più recente (Cass. 21501/2018), in tema di violazione delle distanze tra costruzioni, il danno che subisce il proprietario confinante deve ritenersi "in re ipsa", senza necessità di una specifica attività probatoria, essendo l'effetto, certo e indiscutibile, dell'abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà.
Nondimeno, gli Ermellini ribadiscono che la determinazione di tale danno, ancorché effettuata in via equitativa, deve ancorarsi a parametri ben definiti.
Con specifico riferimento al caso di specie – a fronte di un pregiudizio che, secondo gli accertamenti della ctu, risultava essere assai limitato – l'ammontare liquidato in sentenza era invece del tutto privo di ogni riferimento a criteri che dessero conto dell'iter logico seguito per giungere alla determinazione della somma in concreto liquidata.
In particolare, il rilevante importo riconosciuto appariva in contrasto con la valutazione del ctu, secondo cui il pregiudizio del fabbricato per diminuzione di visuale, esposizione, luce, aria, sole e amenità in genere era assai contenuto, mentre era praticamente inesistente il deprezzamento di valore commerciale dell'appartamento, senza che in sentenza fossero stati in alcun modo confutati gli assunti dei consulenti.
In ragione di tanto, la Cassazione cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia la causa per nuovo esame alla Corte d'appello di Ancona in diversa composizione, anche per le spese del giudizio.
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