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Produzione di documenti riservati. Ricorre la scriminante del diritto di difesa?

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 Fonte (https://www.codicedeontologico-cnf.it/)

Con decisione n. 147/2022 il Consiglio Nazionale Forense ha affermato la prevalenza del divieto di produrre o riferire in giudizio la corrispondenza espressamente qualificata come riservata di cui all'art. 48 n.c.d.f. sul diritto di difesa.

Analizziamo l'iter logico-giuridico seguito dal Consiglio Nazionale Forense.

I fatti del procedimento disciplinare

L'avvocato incolpato è stato sottoposto a procedimento disciplinare per violazione degli articoli 12 e 48 del n.c.d.f. Per aver, nell'ambito di una causa di lavoro davanti al Tribunale prodotto una copia di comunicazioni e-mail scambiate tra colleghi e contraddistinte dalla dicitura "riservata personale non producibile in giudizio", contenente alcune proposte conciliative al fine di evitare la lite.

Il CDD, ritenuta la sussistenza della violazione, ha applicato a carico dell'incolpato la sanzione disciplinare della censura.

Conseguentemente l'incolpato ha proposto ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense non contestando di avere prodotto delle email in cui vi era la dizione "riservata personale", ma affermando, a sostegno delle proprie ragioni, che la produzione documentale contraddistinta dalla clausola di riservatezza era funzionale al compiuto e completo esercizio del diritto di difesa.

Per l'incolpato, infatti, sussisterebbe la scriminante dell'esercizio del diritto di difesa nonché un'erronea ricostruzione dei fatti da parte del CDD.

 La decisione del Consiglio Nazionale Forense

Sul punto il Consiglio ha rilevato che il disposto dell'art. 48 CDF, che vieta di produrre, riportare in atti processuali o riferire in giudizio la corrispondenza intercorsa esclusivamente tra colleghi qualificata come riservata, nonché quella contenente proposte transattive e relative risposte, costituisce un principio cardine posto a tutela della professione.

È importante considerare che questo principio verrebbe sistematicamente travolto ogniqualvolta un avvocato ritenesse di valorizzare asserzioni avversarie contenute in uno scritto qualificato come "riservato personale", in quanto "l'Avvocato deve, sì, porre ogni più rigoroso impegno nella difesa del proprio assistito senza, tuttavia, travalicare i limiti della rigorosa osservanza delle norme deontologiche" (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 42 del 25 febbraio 2020).

Tra l'altro la ratio del divieto di produrre la corrispondenza riservata scambiata con il collega consiste nel garantire all'avvocato in qualsiasi fase della controversia, sia giudiziale che stragiudiziale, di poter interloquire anche per iscritto con il collega di controparte, senza dover temere che le affermazioni contenute nella corrispondenza indirizzata allo stesso collega possano essere utilizzate in maniera tale da ledere la parte assistita. Qualora non sussistesse tale garanzia risulterebbe limitata o addirittura compromessa la possibilità di iniziativa conciliativa, che pure costituisce una delle espressioni maggiormente qualificanti dell'attività professionale. Per questo motivo il Consiglio ha da tempo affermato che "Il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza tra i professionisti contenente proposte transattive assume la valenza di un principio invalicabile di affidabilità e lealtà nei rapporti interprofessionali, indipendentemente dagli effetti processuali della produzione vietata, in quanto la norma mira a tutelare la riservatezza del mittente e la credibilità del destinatario, nel senso che il primo, quando scrive ad un collega di un proposito transattivo, non deve essere condizionato dal timore che il contenuto del documento possa essere valutato in giudizio contro le ragioni del suo cliente, mentre il secondo deve essere portatore di un indispensabile bagaglio di credibilità e lealtà che rappresenta la base del patrimonio di ogni avvocato" (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 108 del 16 ottobre 2019).

 Il Consiglio ha altresì precisato che non ha rilevanza la circostanza che il Giudice adito non tenga in considerazione il documento riservato prodotto, atteso che secondo la consolidata giurisprudenza "l'illecito disciplinare si configura indipendentemente dalla produzione e dall'entità del danno subito dal cliente a seguito della condotta illecita posto che il fine del procedimento disciplinare è quello di salvaguardare il decoro e la dignità dell'intera classe forense mediante la repressione di ogni condotta che sia contraria ai doveri imposti dalla legge" (cfr. ex multis, Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 13 dicembre 2018, n. 174).

Quanto all'elemento soggettivo, il Consiglio ha rammentato che "per l'imputabilità dell'infrazione disciplinare non è necessaria la consapevolezza dell'illegittimità dell'azione, dolo generico o specifico, ma è sufficiente la volontarietà con la quale è stato compiuto l'atto deontologicamente scorretto, a nulla rilevando la ritenuta sussistenza da parte del professionista di una causa di giustificazione o non punibilità" (Consiglio Nazionale Forense (pres. Masi, rel. Di Maggio), sentenza n. 5 del 23 febbraio 2022).

Nel caso di specie il Consiglio ha ritenuto la sussistenza

  • sia dell'illiceità della produzione documentale, la quale non può essere eliminata dalla scriminante dell'esercizio di difesa, in quanto la stessa deve essere sempre contemperata al rispetto dei precetti deontologici;
  • sia della volontarietà della produzione del documento riservato, volontarietà che è stata addirittura sostenuta dall'avvocato ricorrente.

Per questi motivi il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso.

 

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