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Sipissichiavi!
E questo che vuole, penso, aggrappato alla mano di mio padre. Papà ha deciso di portarmi a vedere il posto dove lavora: è un giorno di giugno del 1965, io ho dieci anni, oggi non vado a scuola. Abbiamo parcheggiato la macchina di fronte a un palazzo grande, enorme, proprio di fronte al Tevere.
"Questo è il Palazzaccio" mi dice papà, e io non so se guardare lui, il palazzo grande che in effetti è veramente un palazzaccio, oppure l'omino che ci segue con la mano alzata. Zoppica vistosamente, praticamente la gamba sinistra non si piega, ma fa un mezzo cerchio, poi lui fa una specie di saltello con la destra, e poi ricomincia con il mezzo giro della gamba sinistra.
Sipissichiavi! Sipissichiavi!
Papà, faccio io, quel signore ci segue. Papà si volta "Ah, il siciliano!" esclama "Dimmi Carmelo!" e a me dice "E' il parcheggiatore, stai tranquillo".
"Sipissichiavi" dice ancora una volta Carmelo, e tra un semicerchio con la gamba sinistra e un saltello sulla gamba destra alza la mano destra, con la sigaretta penzoloni tra le labbra e l'occhio sinistro semichiuso per evitare il fumo. In mano ha le chiavi della macchina di papà, e "sipissichiavi" vuol dire semplicemente "si perse le chiavi".
Papà ha in mano la sua borsa. Anzi una delle sue borse. Ne ha almeno tre o quattro, una nuova nuova, le altre nell'ordine usate, vecchie e apparentemente da buttare. I giorni che esce di casa per "Una questione importante" come dice a mamma, riempe di carte quella più brutta, più vecchia, più sbrindellata.
Ha un sacco di cose interessanti nella sua stanza, mio padre. Cartelline rosse e azzurre che a me e ai miei fratelli è proibito anche solo guardare. Fogli leggeri che lui chiama "carta velina", fogli argentati che invece chiama "carta carbone", un cassetto pieno di penne stilografiche, fogli di carta assorbente, boccette di inchiostro, matite rosse e blu, temperamatite, gomme per cancellare di due colori, graffe e graffette, macchine per cucire insieme i fogli con una molla che come la tocchi schizza via, una macchina da scrivere con un carrello che quando arriva a fine corsa suona il campanello, libri aperti con le righe piccole piccole, fogli di carta a righe, carte che gli consegna un certo signore che arriva sempre di pomeriggio e che lui chiama ufficiale ma che non ha la divisa e nemmeno la sciabola, una foto di nonno sulla scrivania e un coccodrillo di bronzo pesantissimo, che lui piazza sulle carte per tenerle ferme nei giorni che apre la finestra ed entra un po' di vento.
Grazie Carmelo, prego dottore, benedica…e come si chiama il caruso, Giuseppe, che bel nome, anche mio figlio si chiama Giuseppe, adesso Carmelo ti saluto che mi aspettano in Corte, cacerto dottore ci mancherebbe…..
E ci avviamo su per le scale bianche del Palazzaccio. Le statue ai lati ci guardano torve, papà sale dritto come un fuso, con la borsa in mano e un panno nero appoggiato sopra, con delle corde dorate. "Che bel mantello" penso io "Chissà di chi è, e perché ce lo ha papà" E arranco dietro di lui.
Entriamo nel cortile, giriamo a destra, poi a sinistra, saliamo delle scale grandi, poi ci infiliamo in una scaletta piccola e stretta. Papà apre una porta, e mi fa entrare in una specie di mezzanino, che si affaccia su una stanza enorme, grande, con una grande cattedra di legno, come quelle che ci sono a scuola, ma scura, e molto più grande. "Stai qui e non ti muovere. Tra poco vedrai che cosa fa papà quando esce la mattina". Mi lascia lì da solo: Non è vero, non sono solo, mamma è con me, è uscita con noi, ha camminato con noi dalla macchina fino al Palazzaccio, ha riso con papà quando il posteggiatore ci ha inseguito urlando "Sipissichiavi".
Ma io questa mattina sono solo con papà, è lui che mi ha detto "Vieni con me, andiamo…". Lo ha detto a me, non a mio fratello più grande, non a mio fratello più piccolo, non alla mia sorellina: e quindi stamattina siamo soli, io e mio padre. Lui con i suoi capelli corti, neri, le sopracciglia unite sopra agli occhi di fuoco, le sue mani forti, le sue spalle dritte. Io con i miei pantaloni all'inglese, poco sopra al ginocchio, e i miei calzettoni blu, poco sotto il ginocchio.
Papà si volta, apre la porta del mezzanino, da un bacio leggero a mamma, e a me una carezza. Poi un ultimo volteggio, e nell'ordine escono lui, la borsa e quello strano mantello nero con le corde dorate. Chissà a chi lo deve ridare. Anche mamma fa un volteggio, e la sua gonna fa un cerchio ampio insieme a lei, è come se ballasse: si siede su una poltroncina, mi tira verso di lei, mi dà un bacio e mi dice :"Sta a guardare". Sono emozionato, ho quasi il magone, ma veramente non riesco nemmeno a immaginare quello che sta per succedere. Mi affaccio sulla grande stanza: dietro all'enorme scrivania adesso ci sono tre signori vecchi, con un mantello nero sulle spalle, e le corde dorate che si intrecciano tra di loro, e mucchi di carte davanti a loro come quelli che ha papà sulla sua scrivania. Da un lato, appoggiato ad una specie di banchetto che assomiglia a quello del prete quando fa la predica la domenica, c'è un altro signore, anche lui con il mantello nero e le corde dorate. Tra di loro c'è un omino, anche lui con un mantello nero, ma senza corde dorate, che corre da un lato all'altro della stanza con piccoli foglietti in mano. Correre non corre, in effetti, diciamo che si affretta, saltellando sulla gamba destra, mentre la sinistra fa un semichercio, tesa e rigida. Che strano, mica comincerà anche lui a dire "Sipissichiavi"? Papà sta in mezzo alla stanza, e anche lui ha il mantello sulle spalle. Cosa voglia dire tutto questo, e cosa stia per succedere, lo sa il buon Gesù. Io no di certo.
E' un uomo tranquillo, mio padre. Passa le giornate a scrivere e a leggere. E il sabato e la domenica gli piace dipingere, ha un'altra stanza piena di quadri, di tele appoggiate al muro, e sul tavolo c'è una cassetta di legno piena di tubetti colorati, alcuni spremuti altri no. Il più grande di tutti è il tubo del bianco. E poi c'è l'odore della trementina, che serve a diluire i colori, e la tavolozza, che da un lato ha un buco affascinante dove si infila il pollice, con tutte macchie di colore sopra (la tavolozza, non il pollice). Non ha bisogno di alzare la voce con noi bambini. Un suo sguardo vale più di cento parole. Un suo cenno del capo è un ordine perentorio, da eseguire immediatamente: ma in tutto questo, parla sempre in maniera tranquilla, e a volta per sentire quello che dice occorre che noi fratelli interrompiamo qualsiasi attività, perché anche il volare di una mosca potrebbe impedirci di comprendere bene.
Dunque mio padre sta lì, in mezzo alla stanza, con sulle spalle un mantello nero e tante corde dorate. Mah! E a un certo punto alza il braccio destro, e con voce alta, altissima, ma non acuta, profonda invece, dice, esclama, declama: "Eccellentissimo Presidente, Signori Consiglieri, illustre Procuratore Generale…" Io faccio un salto indietro, e mi rifugio tra le braccia di mia madre. Mio padre continua a parlare ad alta voce. Ecco, mi torna il magone: mio padre in mezzo alla grande stanza sta parlando ai vecchi signori, che lo guardano in silenzio, da lontano, dal loro bancone che assomiglia ad una cattedra, con la testa china. Perché lo debba fare da tale distanza per me è un mistero. Ma sono affascinato, starei lì ore ed ore a sentirlo, e a vedere come si muove con le carte in mano, guardando ora uno ora l'altro dei vecchi signori con il mantello nero.
Sono passati 50 anni. In quell'aula ci sono tornato tante altre volte, e il mantello nero con le corde dorate da un certo momento in poi è finito sulle mie spalle: ho discusso, ho parlato, ho vinto, ho perso, ho passeggiato nei corridoi in attesa di essere chiamato. I vecchi signori sullo scranno dei giudici sono sempre vecchi ma non sono più gli stessi. I parcheggiatori fuori del Palazzaccio non ci stanno più, ora c'è un grande parcheggio sotterraneo con sopra tanti bei giardini fioriti. Ogni tanto guardo in alto, verso il mezzanino, per vedere se per caso un bambino si affaccia. Non succede mai, e forse e meglio così. Pochi giorni fa, però, è successa una cosa strana. Ero in attesa di essere chiamato, avevo la mia toga sulle spalle, e sul tavolo fuori dell'aula avevo appoggiato le mie cose. Non mi sono accorto che avevo inavvertitamente fatto cadere le mie chiavi di casa in terra. Il cliente di un altro avvocato, seduto vicino a me, le ha raccolte e me le ha porte, e sorridendo mi ha detto : "Sipissichiavi". E in un millesimo di secondo ho sentito il calore della mano di mio padre che mi portava su per le scale del Palazzaccio, ho salito quelle scale insieme a lui, e ho sentito distintamente la sua voce rimbombare nell'aula "Eccellentissimo Presidente…."
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