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Morte dell’assistito, SU: “Commette illecito deontologico l’avvocato che, ignorando il decesso, prosegua il giudizio”

Morte dell’assistito, SU: “Commette illecito deontologico l’avvocato che, ignorando il decesso, prosegua il giudizio”

Con la decisione n. 12636 dello scorso 13 maggio, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno rigettato il ricorso di un legale che eccepiva l'illegittimità della sanzione disciplinare ricevuta per aver proseguito il giudizio nonostante la parte da lui assistita fosse morta, a nulla valendo la circostanza che l'assunzione dell'incarico fosse avvenuta anni prima con regolare procura.

Si è infatti rimarcato che commette illecito deontologico il legale che, violando il dovere di informazione, lealtà e correttezza, ometta di contattare il proprio assistito per informarlo sullo svolgimento del giudizio, e, per tale comportamento, non venga a conoscenza del suo decesso.

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dall'instaurazione di un procedimento disciplinare avverso un avvocato, accusato per violazione dei doveri di lealtà e correttezza di cui al previgente art. 6 del codice deontologico.

In particolare il legale, nel dicembre del 2005, presentava un ricorso in Cassazione per conto di un proprio assistito, residente all'estero e titolare di pensione in regime internazionale; a seguito di sentenza di accoglimento del ricorso, nel 2008 depositava presso la cancelleria della Corte di appello di Roma un ricorso in riassunzione. Tutte le surriferite attività venivano compiute sebbene l'assistito risultava deceduto già dal gennaio 2003, ovvero in epoca precedente all'attività processuale svolta sulla base della procura apposta a margine degli atti difensivi. 

Per tali fatti, essendo inequivocabilmente emerso il proseguimento di attività professionale in assenza di qualsiasi informativa, o tentativo d'informativa, a favore della stessa o degli eredi, il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Bologna ravvisava la violazione dei doveri di lealtà e correttezza di cui all'art. 6 Codice deontologico forense, e, per l'effetto, irrogava la sanzione della censura, così come prescritto dai commi 7 e 8 dell'art. 27 del nuovo codice deontologico nel caso di violazione del dovere di informazione.

Il Consiglio nazionale forense confermava la sanzione, sul presupposto che commette un illecito deontologico l'avvocato che svolga il mandato conferitogli senza avere cura di fornire tutte le informazioni possibili, sia al momento dell'assunzione dell'incarico che, soprattutto, durante lo svolgimento dello stesso.

Avverso la decisione il difensore proponeva ricorso in Cassazione, denunciando la violazione o falsa applicazione degli artt. 83, 111 e 112 c.p.c..

In particolare il ricorrente si doleva per aver la sentenza impugnata rinvenuto un illecito disciplinare nel fatto che il difensore avesse continuato ad agire pur dopo il decesso del proprio assistito, rimarcando come l'attività processuale era avvenuta in forza di valida procura consolare rilasciata dall'assistito in data 2 luglio 1998. 

 Le Sezioni Unite non condividono le doglianze del ricorrente.

Gli Ermellini, premettono che il dovere d'informazione è finalizzato non solo a non far insorgere pregiudizi in capo all'assistito, in quanto assolve ad un obbligo più ampio, che deve articolarsi nella rappresentazione dei rimedi esperibili e nella condivisione delle scelte processuali.

Con specifico riferimento al caso di specie, il legale non ha per nulla adempiuto a siffatto obbligo: l'incolpato, infatti, nel corso del procedimento non ha fornito prova di aver saputo del decesso del suo assistito e tanto si è verificato proprio in quanto non ha mai curato l'iniziativa di contattare lo stesso o i suoi familiari per dar conto e convenire le azioni a tutela dello stesso.

Ne deriva che lo stesso ha assunto le iniziative processuali di propria iniziativa, violando per oltre 5 anni l'obbligo di informazione sullo svolgimento del mandato e sulla necessità di compiere determinati atti a tutela dei suoi interessi (obbligo prescritto dall'art. 40 del codice deontologico previgente, oggi art. 27); siffatto comportamento ha conseguentemente ingenerato nei confronti dei giudici aditi e dei contraddittori processuali l'apparente legittimità dello specifico incarico, il tutto in spregio alle responsabilità connesse al rilievo pubblicistico della funzione difensiva.

In conclusione, la Corte rigetta il ricorso condannando il ricorrente al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

 

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