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Mancata diagnosi di malformazioni e minore in stato vegetativo: si a cure ma non possibile agire per il risarcimento di talune poste di danno

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Con l'ordinanza n. 24189 dello scorso 4 ottobre, la Cassazione, III sezione civile, pronunciandosi sulla possibilità di avanzare una richiesta di risarcimento danni in nome e per conto del minore che, a causa di una mancata diagnosi medica, sia nato con una possibilità di vita solo vegetativa, ha escluso che il disabile vanti alcun diritto, giacché l'ordinamento non conosce il diritto a non nascere se non sano, né la vita del bambino può integrare un danno conseguenza dell'illecito omissivo del medico.

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dalla richiesta di risarcimento danni avanzata dai genitori di un minore, sia in proprio che quali esercenti la potestà sul figlio, contro la struttura ospedaliera e i medici ivi operanti, per la mancata diagnosi in sede di esami ecografici del grave quadro malformativo del feto, nato poi con possibilità di vita esclusivamente vegetativa.

Il Tribunale di Monza accoglieva la domanda, condannando i convenuti in solido fra loro pagamento in favore degli attori ciascuno della somma di Euro 300.000,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale e della somma di euro 1.140.000,00 per il danno patrimoniale.

La Corte Appello Milano, in parziale riforma della sentenza del giudice di prime cure, stabiliva che il risarcimento relativo al danno patrimoniale dovesse essere elevato ad euro 1.620.00,00, con esclusione – per mancanza di prova sul punto – di qualsiasi contributo dovuto per lucro cessante e danno emergente legato all'aspettativa di vita; poneva, equitativamente, a carico della struttura sanitaria l'obbligo di corrispondere mensilmente un assegno pari ad euro 4.000,00 per far fronte all'assistenza continua del minore, invalido al 100%; statuiva, infine, che non poteva essere accolta la domanda proposta in nome e per conto del minore, stante quanto affermato dalle Sezioni Unite con pronuncia n. 25767 del 2015 e quanto emergente dall'espletata CTU, la quale aveva escluso l'esistenza di un danno biologico-psichico. 

 Ricorrendo in Cassazione con ricorso incidentale, i genitori del minore si dolevano – tra le altre cose – per il mancato accoglimento della domanda proposta in nome e per conto del minore: i ricorrenti osservavano che quanto affermato dalle Sezioni Unite nel 2015, con pronuncia 25767, era relativo ad un'ipotesi di minore affetto da sindrome di down e che, pertanto, tale statuizione non poteva trovare applicazione nel caso di specie, ove si era in presenza di un bambino ridotto ad una vita esclusivamente vegetativa sicché la condizione di "non vita" sarebbe risultata più favorevole rispetto alla condizione nella quale il minore era costretto a trovarsi, al punto che la morte sarebbe stata oggettivamente preferibile rispetto alla vita irrimediabilmente compromessa.

La Cassazione non condivide la censura formulata dai genitori.

La sentenza in commento, richiamando quanto affermato dalle Sezioni Unite del 2015, ribadisce che, in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell'interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l'ordinamento non conosce il diritto a non nascere se non sano, né la vita del bambino può integrare un danno conseguenza dell'illecito omissivo del medico (Cass. Sez. U. 22 dicembre 2015, n. 25767).

Tale principio di diritto, applicato dalla massima composizione della Suprema Corte per il caso di figlio nato down, deve – secondo la sentenza in commento - trovare applicazione anche al caso di uno stato vegetativo permanente, non essendoci ostacoli ad una estensione di disciplina.

In particolare la Corte coglie l'occasione per ribadire che siffatto gravissimo stato patologico va tutelato ad ampio raggio dall'ordinamento il quale, piuttosto che legittimare istanze volte alla "non vita", deve favorire misure volte alla concreta attuazione del diritto alle cure.

 Richiamando quanto già statuito nella nota pronuncia su caso Englaro, la Corte ricorda che chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona senso pieno, che deve essere rispettata tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché è in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente: "la tragicità estrema di tale stato patologico che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla toglie alla sua dignità di essere umano non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidare che il Servizio sanitario deve continuare ad offrire e che il malato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte".

La tutela dei diritti del malato non deve essere solo una astratta affermazione di principio, ma va concretamente attuata: "la comunità deve mettere a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori cure i presidi che la scienza medica è in grado di apprestare per affrontare la lotta per restare in vita, a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive. Lo reclamano tanto l'idea di una universale eguaglianza tra gli esseri umani quanto l'altrettanto universale dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra essi, sono i soggetti più fragili".

Sulla base di tanto deve concludersi che anche chi versi in stata vegetativo è persona in senso pieno, che va tutelata e curata: ne deriva che anche rispetto a tale condizione di stato vegetativo la «non vita» non può essere qualificata bene della vita.

Il che porta ad escludere che il minore possa – dalla mancata diagnosi dei medici delle sue malformazioni – aver subito un danno ingiusto consistente nella nascita.

Il ricorso dei genitori viene pertanto rigettato.

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