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Maltrattamenti, SC: “E’ innocente il marito se non vuole ledere la dignità della moglie”

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Con la sentenza n. 6126 dello scorso 7 febbraio in tema di maltrattamenti in famiglia, la VI sezione penale della Corte di Cassazione ha assolto un uomo che aveva ingiuriato, minacciato e maltrattato la moglie in quanto, nonostante la ripetizione di condotte di maltrattamenti, queste erano state sporadiche e non si era raggiunta la prova del dolo unitario. Si è quindi precisato che il reato sussiste quando "raccordate puntualmente tutte le singole condotte, sia possibile individuare esplicitamente un atteggiamento volitivo che non si risolva in manifestazioni, seppur ripetute, di contingente aggressività, ma comprovi il consapevole perseverare in condotte lesive della dignità della persona offesa".

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei riguardi di un uomo, accusato di aver maltrattato la moglie ingiuriandola, minacciandola e percuotendola.

Per tali fatti, l'imputato veniva condannato sia dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo che dalla Corte di Appello di Palermo.

Più nel dettaglio, i giudici di merito – valorizzando le dichiarazioni della persona offesa e di suo fratello nonché alcune foto rappresentanti le ecchimosi sul corpo della donna – ritenevano che si fosse raggiunta la prova sugli elementi costitutivi del reato: difatti, secondo il Collegio Giudicante, le violenze reiterate e le minacce attuate per un consistente arco di tempo caratterizzavano la condotta tenuta dall'imputato come abituale; quanto all'elemento soggettivo del reato, la piena coscienza e volontà dell'azione risultava evidente dalla connotazione della condotta dell'imputato, come emergente dal racconto della vittima. 

L'uomo, ricorrendo in Cassazione, censurava la sentenza per insufficiente e inadeguata motivazione sia in relazione all'elemento oggettivo della abitualità dei comportamenti sia in relazione al correlato elemento soggettivo costituito dal dolo unitario.

La Cassazione ritiene che il ricorso sia fondato: il fatto storico contestato difetta, infatti, del requisito dell'abitualità e, inoltre, non è animato dall'intenzione e dalla volontà di persistere in un'attività delittuosa, già attuata in precedenza, idonea a ledere l'interesse tutelato dalla norma incriminatrice.

In relazione all'elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia, gli Ermellini evidenziano come esso consista nel compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, anche se ripetuti in un limitato contesto temporale; trattandosi di un reato abituale, le singole condotte contestate – sebbene ben possano alternarsi a comportamenti corretti e incensurabili – non devono tuttavia essere sporadiche.

In relazione allo specifico caso, la sentenza in commento evidenzia come effettivamente la decisione impugnata abbia, erroneamente e con motivazione insufficiente, ritenuto provata l'abitualità delle condotte. 

Difatti, all'esito del dibattimento è emerso che nell'arco di tempo di 10 mesi (dal dicembre 2013 all'ottobre 2014) solo tre episodi di maltrattamenti – consistenti, rispettivamente, in una condotta di minaccia, una di ingiuria e una di percosse – erano stati realizzati: secondo gli Ermellini tali episodi, sebbene temporalmente fra loro non particolarmente distanti, non possono reputarsi così tanto contigui da integrare il requisito dell'abitualità, che è di certo escluso quando gli episodi, complessivamente valutati, siano sporadici.

Per quanto riguarda l'elemento soggettivo del reato, la sussistenza del dolo del reato di maltrattamenti in famiglia non implica l'intenzione di sottoporre la persona offesa, in modo continuo e abituale, a una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell'agente di persistere in un'attività vessatoria: tale consapevolezza, tuttavia, deve essere provata effettivamente, essendo necessario che, raccordate puntualmente tutte le singole condotte, sia possibile individuare esplicitamente un atteggiamento volitivo che non si risolva in manifestazioni, seppur ripetute, di contingente aggressività, ma comprovi il consapevole perseverare in condotte lesive della dignità della persona offesa.

Di contro, la sentenza impugnata, limitandosi ad affermare che la piena coscienza e volontà dell'azione emergeva dal racconto della vittima e dalla connotazione della condotta dell'imputato, ha apoditticamente ritenuto sussistente l'elemento psicologico in assenza di un puntuale accertamento della volontà dell'imputato di perseverare in condotte lesive della dignità della moglie.

Alla luce di siffatte evenienze, la Corte accoglie il ricorso e annulla con rinvio la sentenza impugnata. 

 

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