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Con la sentenza n. 29190 dello scorso 26 luglio, la VI sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la condanna per maltrattamenti in famiglia a carico di un uomo che, oltre a tre episodi di violenza, aveva posto in essere continue offese e atti di disprezzo ai danni della compagna, impedendole di tenere relazioni sociali.
Si è difatti precisato che il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali.
Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo accusato dei delitti di maltrattamenti in famiglia e lesioni personali in danno della moglie.
In particolare, l'uomo, per un arco temporale particolarmente ampio, aveva abitualmente tenuto condotte minacciose ed offensive nei confronti della moglie, impedendole di tenere relazioni sociali e facendola oggetto di ripetute violenze e vessazioni; in tale contesto, si erano verificati anche alcuni specifici episodi culminati con le lesioni personali.
Per tali fatti, sia il Tribunale che la Corte d'appello di Perugia riconoscevano l'uomo colpevole dei delitti contestati e lo condannavano alla pena di giustizia.
Ricorrendo in Cassazione, l'imputato eccepiva violazione di legge e il vizio di motivazione, deducendo come la Corte aveva formulato il suo giudizio di responsabilità senza valutare l'abitualità della condotta, come testimoniato dal fatto che nello stesso capo di imputazione si indicavano solo tre episodi specifici, peraltro commessi ad intervalli temporali particolarmente ampi.
A tal riguardo, l'uomo si doleva per la genericità delle condotte vessatorie contestatagli, sostenendo come le stesse andassero lette nel contesto della relazione coniugale contraddistinta da un'accesa conflittualità e da reciproche offese.
La Cassazione non condivide le doglianze formulate.
Gli Ermellini ricordano il delitto di maltrattamenti in famiglia non è integrato soltanto dalle percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni e umiliazioni imposte alla vittima, ma anche dagli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali. Conseguentemente, il reato può essere integrato sia mediante la commissione di condotte costituenti autonome ipotesi delittuose, come tipicamente avviene nel caso in cui la persona offesa subisca lesioni personali, ma anche a seguito di condotte genericamente vessatorie, purché queste siano in grado di realizzare quello stato di umiliazione ed abituale prostrazione della vittima che tipicamente contraddistingue la nozione stessa di maltrattamenti in famiglia.
Secondo la più recente giurisprudenza, infatti, il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sé, non costituiscono reato, posto che il termine "maltrattare" non evoca la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all'art. 572 c.p.
Con specifico riferimento al caso di specie, la Cassazione evidenzia come i giudici si siano conformati al principio di diritto enunciato, dando ampiamente conto di come le condotte maltrattanti siano state abituali, continuative e si siano protratte per tutto il periodo della convivenza; di contro, i singoli episodi specificati nell'imputazione, individuavano solo i casi in cui i maltrattamenti si erano manifestati con condotte di aggressione fisica cui erano conseguite lesioni personali, senza esaurire certamente la condotta contestata..
In conclusione, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
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