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In sintesi.
Al fine di provare l'esistenza del nesso causale tra l'imposizione per anni di condizioni intollerabili di lavoro ed il danno biologico conseguente all'infarto del miocardio, il lavoratore può allegare la documentazione relativa al riconoscimento dell'equo indennizzo per la causa di servizio. In tal caso, l'onere della prova si inverte e il datore deve dimostrare di aver adottato ogni cautela per impedire l'evento dannoso.
La nocività dell'ambiente di lavoro, invece, deve ritenersi sussistente qualora il lavoratore alleghi e provi di aver svolto in maniera prolungata prestazioni eccedenti il normale e tollerabile orario lavorativo.
Il caso.
Un dirigente medico si rivolgeva al giudice del lavoro per ottenere il risarcimento del danno biologico derivante dall'infarto del miocardio, subito, secondo la prospettazione fornita nel ricorso introduttivo, a causa del sottodimensionamento dell'organico che l'aveva costretto per molti anni a turni intollerabili di lavoro.
A corredo della richiesta, il dirigente allegava la documentazione concernente il riconoscimento della causa di servizio, conclusasi vittoriosamente.
Il ricorso veniva respinto sia in primo che in secondo grado.
A parere dei giudici del merito, la domanda era infondata non solo perché la parte non aveva indicato quali norme sulla sicurezza erano state violate, ma anche perché non aveva fornito la prova della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dell'esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno.
Secondo i giudici di merito, poi, il sottodimensionamento dell'organico non era imputabile alla ASL, la quale non poteva assumere altri dipendenti senza preventiva autorizzazione della Regione, inoltre, la documentazione relativa al riconoscimento della causa di servizio era irrilevante ai fini della decisione, trattandosi di un accertamento in sede amministrativa.
Contro la sentenza della Corte d'Appello, il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, articolandolo in vari motivi.
La decisione della Cassazione.
La Corte ha anzitutto rammentato che la responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c. ha natura contrattuale e, di conseguenza, incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo. Tale disposizione, inoltre, si qualifica alla stregua di norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all'imprenditore l'obbligo di tutelare l'integrità fisio-psichica dei dipendenti con l'adozione – e il mantenimento perfettamente funzionale – di tutte le misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico idonee, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione nell'ambiente o in circostanza di lavoro anche in relazione ad eventi che non sono coperti specificamente dalla normativa antinfortunistica, giustificandosi l'interpretazione estensiva della cennata norma sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia per il principio di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo volgimento del rapporto di lavoro.
Le corti di merito, nel rigettare il ricorso del dirigente medico, non avevano fatto una corretta applicazione di tali principi perché:
- non incombeva sul lavoratore l'onere di provare la sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di misure di sicurezza suggerite dalla particolarità del lavoro, né, tantomeno, di indicare in maniera specifica quali norme della normativa antinfortunistica erano state violate;
- il lavoratore aveva provato sia l'evento dannoso (l'infarto da miocardio), sia la nocività delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa (attraverso l'allegazione e la prova della sottoposizione a turni di lavoro eccedenti la normale tollerabilità), sia, infine, l'esistenza del nesso causale, attraverso la produzione in giudizio della documentazione relativa alla causa di servizio per il riconoscimento dell'equo indennizzo.
A tale ultimo riguardo la Corte di legittimità ha ricordato che il fatto che sia stata riconosciuta in sede amministrativa la causa di servizio ai fini dell'equo indennizzo e che sia stata prodotta in giudizio la relativa documentazione, se non vale come prova legale (vincolante per il giudice), del nesso causale, ben può essere apprezzata ai sensi dell'art. 116 c.p.c., come prova sufficiente di quel nesso, in mancanza di elementi istruttori di segno contrario.
Infatti, la reciproca autonomia degli istituti dell'equo indennizzo e del risarcimento del danno, non esclude che si possa realizzare una vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia ai fini sia dell'equo indennizzo che del risarcimento del danno biologico derivante dalla malattia.
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Paola Mastrantonio, avvocato; amante della libertà, della musica e dei libri. Pensiero autonomo è la mia parola d'ordine, indipendenza la sintesi del mio stile di vita. Laureata in giurisprudenza nel 1997, ho inizialmente intrapreso la strada dell'insegnamento, finché, nel 2003 ho deciso di iscrivermi all'albo degli avvocati. Mi occupo prevalentemente di diritto penale. Mi sono cimentata in numerose note a sentenza, pubblicate su riviste professionali e specializzate. In una sua poesia Neruda ha scritto che muore lentamente chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno. Io sono pienamente d'accordo con lui.