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Insulta quotidianamente la moglie: marito condannato per maltrattamenti in famiglia

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Con la sentenza n. 34351 dello scorso 3 dicembre, la IV sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia inflitto ad uno marito per i ripetuti ed abituali insulti pronunciati nei confronti della moglie, escludendo che solo le sporadiche condotte violente, e non anche i summenzionati insulti, potessero integrare l'abitualità e continuità richieste dal codice penale in tema di maltrattamenti in famiglia.

Si è difatti specificato che "in relazione al reato di cui all'art. 572 c.p., è necessario che le condotte siano connotate da ripetitività tale da costituire quella continuità ed abitualità che configura la condotta materiale del reato, dovendo questa consistere nella sottoposizione del familiare ad una serie di sofferenze fisiche e morali che, isolatamente considerate, potrebbero anche non costituire reato, accompagnata, sotto il profilo soggettivo, dalla coscienza e volontà dell'agente di porre in essere siffatti atti vessatori".

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato dei reati di maltrattamenti in famiglia commessi in danno della moglie, per avere sottoposto la donna a vessazioni percosse e violenze, nonché per averla costretta a subire atti sessuali contro la sua volontà. 

 Inoltre, all'esito delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, era emerso che l'uomo, nella quotidianità della vita e non solo nel corso di litigi, era solito prevaricare la moglie con continui insulti, quali "… sei una scrofa, come sei brutta, copriti, fai schifo, sei grassa, dovrei cambiare le porte perché non ci entri più, tra dieci anni ti cambio con una più giovane e più bella…".

Per tali fatti, il Tribunale di Bologna condannava l'uomo alla pena di legge.

La Corte d'appello di Bologna, in riforma della sentenza di condanna, assolveva l'imputato, ritenendo che non fossero stati integrati i presupposti indispensabili per la pronuncia di condanna, quali la ripetività ed ossessività degli atti.

La Cassazione, in sede rescindente, annullava la sentenza della Corte di Appello per difetto di motivazione circa la mancata ripetività ed ossessività degli atti.

Ricorrendo in Cassazione avverso la sentenza resa in fase rescissoria, l'imputato denunciava vizio di motivazione e erronea applicazione della legge penale per essere stato ritenuto sussistente il reato di cui all'art. 572 c.p..

In particolare, l'uomo censurava la sentenza per aver ritenuto pienamente attendibili e affidabili le dichiarazioni resa dalla persona offesa nel corso del dibattimento, senza tuttavia occuparsi di riconsiderare tutto il materiale probatorio a disposizione.

A tal fine eccepiva l'omessa valutazione di una relazione di servizio di una pattuglia di carabinieri intervenuti nel corso di una lite, che – nell'interrogare la persona offesa – avevano appreso da quest'ultima come il marito, dopo alcuni episodi di violenza, non aveva più reiterato le condotte denunciate nei suoi confronti

 La Cassazione non condivide la censura prospettata.

La Corte premette che il mandato del giudice di legittimità, in sede rescindente, non è quello di procedere ad una nuova valutazione della credibilità della persona offesa, bensì quello di valutare se le condotte indicate nell'atto di imputazione siano inquadrabili nel delitto oggetto di contestazione.

In relazione al reato di cui all'art. 572 c.p., è necessario che le condotte siano connotate da ripetitività tale da costituire quella continuità ed abitualità che configura la condotta materiale del reato, dovendo questa consistere nella sottoposizione del familiare ad una serie di sofferenze fisiche e morali che, isolatamente considerate, potrebbero anche non costituire reato, accompagnata, sotto il profilo soggettivo, dalla coscienza e volontà dell'agente di porre in essere siffatti atti vessatori.

Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come non era richiesto alla Corte, in sede rescissoria, di valutare l'affidabilità complessiva della narrazione della persona offesa, ponendola a confronto con la documentazione acquisita al procedimento e, in particolare, con le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, dovendo la Corte vagliare unicamente la sussistenza dei requisiti richiesti per l'integrazione del reato di maltrattamenti.

Sul punto, la Corte territoriale ha ben argomentato come alle sporadiche condotte violente riferite ed accertate si erano aggiunti episodi di prevaricazione nei confronti della vittima, consisti nei continui insulti pronunciati nella quotidianità della vita e non solo nel corso di litigi: tali continui insulti ben potevano sorreggere il giudizio di ripetitività ed abitualità dei comportamenti richiesto dal delitto di cui all'art. 572 c.p., costituendo il nucleo di un abituale comportamento vessatorio ai danni della persona offesa.

In conclusione, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila alla cassa delle ammende.

 

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