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Il nuovo appello dopo la riforma Orlando

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Con la sentenza n. 34504 del 2018, la Corte di Cassazione ha definito i requisiti richiesti a pena di inammissibilità dell'atto di appello a seguito della recente riforma Orlando.

La Corte ha infatti individuato i caratteri del giudizio di appello a seguito della intervenuta riforma rispetto anche al nuovo contenuto della motivazione della sentenza di primo grado.

A prescindere dal merito della vicenda affrontata, la sentenza è degna di nota in quanto affronta in maniera ampia le caratteristiche del nuovo giudizio di appello.

La l. 103/2017 è intervenuta in materia di impugnazioni penali, per razionalizzare e deflazionare i procedimenti impugnatori.

La legge è intervenuta declinando il nuovo modello legale di motivazione a cui si raccorda la previsione degli specifici motivi di ricorso quale parametro di ammissibilità dell'impugnazione.

In tale prospettiva il legislatore ha modificato anche l'art. 546 co. 1 c.p.p. sulla motivazione della sentenza prevedendo che il corpo della sentenza debba contenere l'esposizione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati con l'enunciazione dei motivi per i quali il giudice non ha ritenuto attendibili le prove contrarie con riguardo all'accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferivano all'impugnazione, alla punibilità e alla determinazione della pena e alla responsabilità civile derivante da reato.

In tal modo è stato esplicitato il percorso logico seguito dal giudice come garanzia ai sensi dell'art. 111 Cost.

In questa logica la concisa esposizione dei motivi in fatto e diritto, costituisce il baricentro dell'apparato giustificato – motivazionale della sentenza e su di esso si fonda l'individuazione dei motivi di impugnazione.

È in quest'ottica che viene ridefinita anche l'enunciazione dei capi o dei punti della decisione, le prove di cui si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione nonché l'erronea valutazione, le richieste istruttorie e tutti i contenuti dell'atto di appello. 

In questa nuova formulazione assume quindi rilievo la dicotomia capi – punti della sentenza al fine di qualificare l'atto di impugnazione e circoscrivere le impugnazioni generiche e dilatorie.

Il capo riguarda la statuizione emessa in relazione ad un capo di incolpazione che assume autonomia rispetto alle altre parti della decisione: in pratica può costituire un oggetto ex se della sentenza.

Il giudicato si forma sul capo quando diventa definitivo con riguardo ad ogni questione necessaria per il proscioglimento o per la condanna dell'imputato.

Il punto, invece, ha portata più limitata e riguarda il singolo tema affrontato all'interno del capo della decisione.

Ogni capo corrisponde ad una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un "passaggio obbligato" per la completa definizione della imputazione che non può considerarsi esaurita se non sono stati risolti tutti i presupposti per la pronuncia finale.

L'impugnazione di un punto, tuttavia, è in grado di impedire il passaggio in giudicato di un intero capo poiché il giudicato si può formare solo sui capi e non sui punti rispetto ai quali si determina semmai una preclusione dovuta alla mancata impugnazione.

Gli interventi della riforma hanno quindi rafforzato il collegamento sistematico fra gli artt. 581 e 546 c.p.p. (sentenza e appello) fondando il principio di proporzionalità tra specificità dei motivi di impugnazione e specificità delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata con riferimento ai medesimi punti. 

In questa prospettiva è andata anche la riforma che ha inteso definire un modello legale di motivazione che delineasse in maniera esplicita la parte giustificativa della sentenza per poter delineare anche i poteri devolutivi del giudice di cognizione ad quem.

Il giudizio di secondo grado, infatti, non può più avere ad oggetto la mera ripetizione di valutazioni già compiute, ma rappresenta una fase eventuale destinata alla individuazione di un errore della sentenza di primo grado, se esistente con la conseguenza per cui ove i motivi non siano idonei a rappresentare l'esistenza e l'incidenza dell'errore, l'atto di appello è inammissibile.

In ciò il legislatore pare quindi aver aderito alla giurisprudenza di legittimità che aveva evidenziato come la natura dell'appello fosse quella di un giudizio critico e di controllo su motivi tassativamente enunciati all'interno dell'impugnazione.

In tale prospettiva si erano già poste le Sezioni Unite nel 2016 con la sentenza n. 8825, Rv. 268823 che aveva affermato l'equiparazione tra appello e ricorso per cassazione quanto alla specificità dei motivi di censura.

Così anche i motivi di appello sono inammissibili come i motivi di ricorso per cassazione quando siano intrinsecamente indeterminati, ma anche quando manchi la correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato.

I due requisiti di determinatezza e specificità dei motivi sono dunque uno intrinseco e uno estrinseco. Il secondo è riferibile al rapporto critico e puntuale tra ragioni della decisione e censure.

I due requisiti insieme determinano la ammissibilità dell'impugnazione.

D'interesse peraltro è la correlazione di tale riforma rispetto al processo civile in cui per l'atto di appello oltre alla specificità è richiesta anche la previsione della ragionevole probabilità che l'impugnazione venga accolta secondo un giudizio prognostico di plausibile fondatezza.

Ne consegue che la riforma delle impugnazioni finisce per dissuadere da impugnazioni dilatorie e troppo generiche in attuazione del principio devolutivo.

In tale impostazione la specificità dei motivi diviene essenziale nel delimitare la rivalutazione delle argomentazioni del giudice di prime cure richiesto al giudice di appello. 

 

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