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Il diritto di abitazione nella casa familiare: fino a quando permane? Quale tutela per l’ex coniuge o convivente di fatto?

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Oggetto dell'articolo di oggi sarà la disciplina del diritto di abitazione nella casa familiare, con particolare riferimento alla tutela dell'ex coniuge o del convivente di fatto superstite.

L'assegnazione della casa familiare in sede di separazione viene disciplinata dall'art. 337 sexies c.c. il quale prevede che "il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli". Il suddetto articolo stabilisce altresì che "il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare"; il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili ai terzi ai senso dell'art. 2643". In sede di divorzio simile disciplina è dettata dall'art. 6 legge 1970 n. 898.

Nell'ambito dei diritti successori l'art. 540 II comma c.c., riconosce al coniuge superstite il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano. Tale diritto viene riconosciuto sulla casa familiare se di proprietà del coniuge defunto o in comproprietà con lo stesso.

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che tale diritto è devoluto automaticamente al coniuge e deve essere riconosciuto automaticamente senza necessità di espressa richiesta (sul punto cfr. Cassazionesez. II sentenza n. 18354/2013), qualunque sia la tipologia di successione sia testamentaria che legittima. Su tale aspetto si è pronunciata la Suprema Corte con una recente sentenza a sezioni Unite del 27 febbraio 2013 n. 4847 e poi ribadito da ultimo da Cass. sentenza n. 23406/2015).

Il coniuge superstite quindi può continuare tranquillamente a godere dell'immobile anche se vi siano altri chiamati all'eredità. L'art. 540 c.c. su richiamato si applica anche alle unioni civili. Pertanto il coniuge o il partner superstite mantiene un titolo autonomo per proseguire legittimamente nell'occupazione dell'immobile adibito a casa familiare.

Anche nel caso di morte del convivente proprietario è previsto un diritto di abitazione del convivente non proprietario sebbene di natura limitata.

L'art. 42 dell'art.1 della nuova legge sulle unioni civili e le convivenze di fatto, prescrive che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitano figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto a continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.

Diversa la disciplina per i figli, per i quali non è previsto alcun diritto di abitazione, salvo che non si tratti di prole minorenne o autonomamente autosufficiente collocati presso la madre cui è stata assegnata già la casa coniugale in sede di separazione. Pertanto la morte del genitore proprietario dell'abitazione determina per i figli la cessazione della validità del titolo che legittima l'occupazione dell'immobile adibito a casa familiare

L'attualità dell'argomento è dimostrata da una recente pronuncia dalla Suprema Corte che con ordinanza del 15-01-2018, n. 772 ha ben specificato i diritti del coniuge superstite in tema di casa familiare.

Nella fattispecie esaminatala casa di proprietà del padre era stata assegnata alla madre, collocataria dei figli (provvedimento confermato dalla sentenza di separazione personale tra i coniugi e con la sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio) ed il provvedimento era stato trascritto. L'abitazione viene però alienata a un terzo (fratello del coniuge divorziato che ne acquista la proprietà a seguito di divisione ereditaria).

Deceduto l'obbligato, il terzo acquirente agisce in giudizio per far accertare l'estinzione del diritto al godimento della casa ed ottenere l'immediato rilascio dell'immobile.

I giudici di primo grado avevano ritenuto che, a seguito del decesso dell'ex coniuge, il diritto personale di godimento della moglie sull'immobile era venuto meno, con conseguente fondatezza della pretesa attorea.

I giudici di appello avevano ritenuto invece che essendo il rapporto tra coniuge assegnatario e terzo acquirente (in epoca successiva all'assegnazione) disciplinato da norme poste a tutela dell'interesse superiore della prole ed essendo l'assegnazione della casa coniugale «estranea alla categoria degli obblighi di mantenimento» tra coniugi, il vincolo di destinazione della casa familiare, collegato all'interesse dei figli, non si estingue dopo la vendita dell'immobile ad un terzo, che ne è consapevole — come nella specie — al momento dell'acquisto, essendo allo stesso opponibile, ove, come nella specie, trascritto, oltre i nove anni, fino alla ricorrenza del presupposto della presenza di prole minorenne o maggiorenne ma non economicamente indipendente.

Propone ricorso il Cassazione il fratello del coniuge deceduto, ritenendo che, dovendo l'assegnazione della casa coniugale essere inquadrata nell'ambito dei doveri di solidarietà familiare, cessati con la morte dell'obbligato ex coniuge divorziato, anche l'obbligazione derivata di esso terzo acquirente è venuta meno.

In adesione all'orientamento a tutt'oggi dominante, la Suprema Corte, ritenendo infondata la censura prospettata dal ricorrente, si esprime nei termini di un diritto personale di godimento (seppur sui generis) di coniuge e figlio sulla casa ed ammette che questo sopravviva alla morte del debitore.

Il dibattito sulla natura del diritto di godimento sulla casa familiareè antico (già art. 155 e 155 quater c.c., ora art. 337 sexies c.c.).

Prima della riforma del divorzio (l. 6 marzo 1987 n. 74) si contendevano due opposti orientamenti: da un lato vi erano i sostenitori della natura personale del diritto, che con rigore tendevano ad escludere l'opponibilità del provvedimento di assegnazione ad eventuali terzi acquirenti; dall'altro i sostenitori della natura reale, che viceversa propendevano per la trascrivibilità del provvedimento e, quindi, per l'opponibilità del diritto. Dopo l'introduzione, ad opera della riforma del divorzio, dell'art. 6, 6° comma, l. 1° dicembre 1970 n. 898, con il quale si è prevista la trascrivibilità del provvedimento di assegnazione e dopo Corte cost. 27 luglio 1989, n. 454, dottrina e giurisprudenza hanno chiaramente aderito alla tesi della natura personale del diritto,

Le due successive novelle, con le quali si è dapprima introdotto l'art. 155 quater c.c. e poi l'art. 337 sexies c.c., non hanno comportato significativi mutamenti nell'indirizzo dominante.

Il dibattito ha cominciato invece a riguardare la qualificazione del particolare diritto personale di godimento (discutendosi se sia assimilabile alla locazione, al comodato o se vada qualificato come diritto personale di godimento sui generis).

Nella sentenza in epigrafe specificatamente si chiarisce che "l'assegnazione della casa coniugale non rappresenta infatti una componente delle obbligazioni patrimoniali conseguenti alla separazione o al divorzio o un modo per realizzare il mantenimento del coniuge più debole e, nel nuovo regime, introdotto già con la l. 54/06, è espressamente condizionata soltanto all'interesse dei figli…"; «la scelta cui il giudice è chiamato non può prescindere dall'affidamento dei figli minori o dalla convivenza con i figli maggiorenni non ancora autosufficienti che funge da presupposto inderogabile dell'assegnazione»; … «la suddetta scelta, inoltre, neppure può essere condizionata dalla ponderazione tra gli interessi di natura solo economica dei coniugi o tanto meno degli stessi figli, in cui non entrino in gioco le esigenze della permanenza di questi ultimi nel quotidiano loro habitat domestico»; «l'assegnazione della casa familiare in conclusione è uno strumento di protezione della prole e non può conseguire altre e diverse finalità» (conf., da ultimo, Cass. 22 luglio 2015, n. 15367).

Di conseguenza,afferma la Suprema Corte che " intervenuto il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge, all'epoca separato, affidatario in esclusiva della prole, il terzo successivo acquirente è tenuto, negli stessi limiti di durata nei quali è a lui opponibile il provvedimento stesso, a rispettare il godimento del coniuge del suo dante causa, nello stesso contenuto e nello stesso regime giuridico propri dell'assegnazione, quale «vincolo di destinazione collegato all'interesse dei figli»;

Importante l'ulteriore specificazione del collegio secondo cui "è escluso qualsiasi obbligo di pagamento da parte del beneficiario per tale godimento, atteso che «ogni forma di corrispettivo verrebbe a snaturare la funzione stessa dell'istituto, in quanto incompatibile con la sua finalità esclusiva di tutela della prole, ed inciderebbe direttamente sull'assetto dei rapporti patrimoniali tra i coniugi dettato dal giudice della separazione o del divorzio» (Cass. 18 agosto 2003, n. 12075 e 24 febbraio 2006, n. 4188).

Nella sentenza in commento con la Suprema Corte, premesso che nel caso de quo, il terzo - successivo acquirente dell'immobile, già adibito a casa familiare prima della separazione, assegnato al coniuge affidatario della prole, all'epoca minorenne, con provvedimento giudiziale, immediatamente trascritto nei pubblici registri- non può opporre, a sostegno della domanda di condanna al rilascio, il solo decesso dell'ex coniuge divorziato dante causa, chiarisce i casi in cui viene meno tale diritto.

Il diritto di abitazione non può dirsi venuto meno per effetto della morte dell'ex coniuge, divorziato, dell'assegnatario, affidatario della prole, trattandosi di un diritto personale di godimento sui generis, che, in funzione del «vincolo di destinazione collegato all'interesse dei figli», si estingue soltanto per il venir meno dei presupposti che hanno determinato l'assegnazione e precisamente:

  • la morte del beneficiario dell'assegnazione,
  • il compimento della maggiore età dei figli o il conseguimento da parte degli stessi dell'indipendenza economica, il trasferimento altrove della loro abitazione
  • a seguito dell'accertamento delle circostanze (oggi codificate dall'art. 337 sexies c.c.) legittimanti una revoca giudiziale, quali il passaggio a nuove nozze oppure la convivenza more uxorio del genitore assegnatario ovvero la mancata utilizzazione da parte dell'assegnatario, sempre previa valutazione dell'interesse prioritario dei figli (Corte cost. 30 luglio 2008, n. 308, cit., con riguardo alla disciplina dettata dall'art. 155 quater c.c.).A tutela dunque del coniuge superstite la Corte afferma il seguente principio: "il diritto sulla casa coniugale spettante al coniuge assegnatario non si estingue con la morte dell'altro coniuge e, laddove il provvedimento che dispone l'assegnazione sia stato debitamente trascritto, rimane opponibile al terzo acquirente".
Nome File: CORTE-DI-CASSAZIONE-ordinanza--15-01-2018-n.772
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