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Il cliente non paga: cosa può fare l'avvocato per recuperare il dovuto senza commettere illecito

Il cliente non paga: cosa può fare l'avvocato per recuperare il dovuto senza commettere illecito

L'azione contro il cliente moroso, la rinuncia al mandato, l'illecito disciplinare

Nel corso dell'esercizio della professione forense, può accadere che l'avvocato si imbatta nella brutta situazione di dover rincorrere il cliente al fine di ottenere il pagamento del compenso per l'attività svolta nell'interesse di quest'ultimo.

In tale ipotesi, il professionista potrà agire in giudizio contro il suo assistito per ottenere il pagamento di quanto dovuto. Tuttavia, affinché detta azione non si traduca in un illecito disciplinare, l'avvocato dovrà rinunciare a tutti gli incarichi ricevuti dal cliente moroso. In mancanza, il professionista sarà suscettibile di sanzione [1]. La rinuncia in questione costituisce l'unico mezzo possibile per eliminare qualsiasi situazione d'incompatibilità esistente tra mandato professionale e contemporanea pendenza della lite promossa contro il proprio assistito (CNF, n. 112/2013).

L'azione contro il cliente per il recupero del compenso non pagato nella prassi

È stato ritenuto che:

  • costituisce comportamento rilevante dal punto di vista disciplinare, la condotta dell'avvocato che intraprenda un'azione esecutiva nei confronti dell'assistito per il recupero di un proprio credito professionale, senza avere previamente rinunciato al mandato (CNF, n 164/208, in https://www.codicedeontologico-cnf.it/?p=69208);
  • è suscettibile di sanzione disciplinare «il professionista che intraprenda un giudizio volto ad ottenere il pagamento di prestazioni professionali contro una parte per la quale sta patrocinando [...] altro giudizio in grado di appello» (CNF, n. 112/2013, in https://www.codicedeontologico-cnf.it/?p=29277);
  • è diversa, con riferimento agli avvocati dipendenti degli enti pubblici, la questione dell'azione per il recupero di quanto dovuto per l'attività svolta e della rinuncia agli incarichi. E ciò in considerazione del fatto che in queste ipotesi «l'obbligo imposto all'avvocato di rinunciare preventivamente a tutti gli incarichi ricevuti dal cliente, nel caso egli intenda avviare nei confronti dell'ente pubblico un'azione giudiziaria per conseguire il pagamento delle proprie prestazioni professionali, implicherebbe conseguenze particolarmente destabilizzanti […]». Infatti, la dismissione di tutti gli incarichi minerebbe la prosecuzione del rapporto con la p.a. A questo deve aggiungersi che, in ogni caso, l'obbligo di rinuncia al mandato non sarebbe applicabile nei confronti dell'avvocato dipendente dagli enti pubblici perché il rapporto giuridico tra quest'ultimo e la p.a. si differenzia da quello tra avvocato e cliente privato, «rispetto al quale la preventiva rinuncia agli incarichi va a incidere sul mandato ricevuto». Una differenza, questa, tra l'altro, confermata anche dal fatto che la regola di condotta in questione «si riferisce al compenso professionale, avente natura e struttura ben diversa dal trattamento economico (stipendiale) proprio dell'avvocato dipendente» (CNF, parere n. 100/2014, in https://www.codicedeontologico-cnf.it/?p=31314);
  • anche i difensori d'ufficio possono agire contro i clienti per ottenere il pagamento del loro compenso, ma occorre tener presente di alcuni limiti imposti dal codice di procedura penale, ossia dall'art. 97 c.p.p. Tale disposizione «ha introdotto nell'ordinamento il principio dell'immutabilità del difensore di ufficio, consentendone la sostituzione solo (5° comma) per giustificato motivo». 

    Ne consegue che, in questi casi, bisognerebbe chiedersi se, essendo pendente il giudizio d'appello, il difensore d'ufficio possa rinunciare all'incarico se il cliente non gli abbia corrisposto il compenso per l'attività svolta nel giudizio di primo grado; rinuncia questa finalizzata a intraprendere un'azione contro l'assistito per il recupero delle competenze professionali. In buona sostanza, il mancato pagamento delle competenze costituisce il "giustificato motivo" contemplato dall'art. 97 c.p.p.? In punto, «deve considerarsi che la lesione del diritto del difensore di ufficio a essere retribuito impedisce di ritenere che sussista, in capo al medesimo, il contrastante dovere di tollerare di non essere retribuito». Tuttavia, per non incorrere nella violazione dell'art. 97, 5° comma, c.p.p.,il difensore d'ufficio «dovrà chiedere al Giudice di essere sostituito per il giustificato motivo, sopravvenuto, costituito dal mancato pagamento della retribuzione dovutagli per legge. Nell'esercizio della discrezionalità che la succitata norma implicitamente prevede, stante la natura sostanzialmente "in bianco" del cosiddetto giustificato motivo, il Giudice deciderà se accogliere, o meno, la richiesta. In caso negativo, l'avvocato d'ufficio dovrà continuare a svolgere l'incarico e ovviamente astenersi, onde evitare l'insorgere di un procedimento disciplinare nei suoi confronti, di agire giudizialmente nei confronti dell'assistito per ottenere il pagamento delle competenze dovutegli» (CNF, parere n. 68/2011, in https://www.codicedeontologico-cnf.it/?p=708).

Note

[1] Art. 34 Codice deontologico forense:

«1. L'avvocato, per agire giudizialmente nei confronti del cliente o della parte assistita per il pagamento delle proprie prestazioni professionali, deve rinunciare a tutti gli incarichi ricevuti. 2. La violazione del dovere di cui al comma precedente comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della censura». 

 

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