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Flaminio Macaluso Lepore, avvocato, attendeva ai suoi uffici con solerzia e impegno (da "Avvocà, per ora grazie")

caravita

 Flaminio Macaluso Lepore, avvocato, attendeva ai suoi uffici con solerzia e impegno. Se ne scendeva dalle sue camere al piano nobile di palazzo Macaluso, poco vicino ai Quartieri, fino all'ufficio che sua sorella Carolina, di una triste bellezza ormai appassita, aveva allestito per lui al primo piano, sullo stesso piano su cui c'erano le stanze della servitù, la cucina e una camera da pranzo. Mobili scuri, accesi da lampi di panno rosso, stampe grigie, carta da parati alle pareti, sedie accostate ai tavoli cariche di carte e fascicoli.

Flaminio e Carolina avevano atteso pazientemente che la Marchesa Macaluso Lepore, la mamma, decidesse di rendere l'anima al Signore, prima di pensare ad un eventuale matrimonio.
Ma la Marchesa aveva prolungato la sua vita terrena sino alla veneranda età di 100 anni, e se ne era tornata alla casa del Padre solo dopo gli ultimi tre anni di una demenza senile di tale portata che aveva finito di imbiancare i capelli già grigi di Carolina.
La possibilità di un matrimonio era stata dunque dapprima messa da parte, e poi definitivamente accantonata: vivevano dunque insieme, annoiandosi come due bravi fratelli.
La sera Carolina ricamava, e Flaminio leggeva. Poi si ritiravano nelle loro stanze, dove cercavano a lungo il sonno e l'oblio.
Solo il giovedì Flaminio si assentava per una serata al Circolo, che finiva sempre alle 10,30 esatte. Alle 11.00 di ogni giovedì in ogni caso e comunque l'Avvocato Macaluso Lepore era nel suo letto. La fatica immensa di essere figlio della Marchesa aveva trovato una unica consolazione, il cibo, e per questo motivo la sua bella faccia meridionale sovrastava un corpo tondeggiante. Si trattava, pur tuttavia, di un elegante avvocato, per quanto più tondo che lungo, e quando era seduto dietro alla sua scrivania l'attenzione dei suoi interlocutori era attirata più dallo sguardo ancora fiammeggiante che dalle rotondità fisiche.
Il cibo che negli anni aveva consolato l'avvocato era, senza tema di smentite, la pasta asciutta: il maccherone, lo zito, il pacchero di Gragnano, lo spaghetto alla chitarra, gli strozzapreti o i maltagliati, gli gnocchi, le paste vestite e quelle al forno, le lasagne erano la sua passione. Di tanto in tanto, l'avvocato si concedeva una incursione nel mondo del riso, ma unicamente quando era disponibile il sartù di riso, ovverosia quella gigantesca teglia di riso condito con grandi quantità di ragù e imbottito con uova sode, salame di Secondigliano, polpettine, scamorza, e infilata poi a gratinare nel forno.
Carolina assecondava questa passione dell'avvocato, e dedicava la sua mattinata alla preparazione di primi piatti e condimenti adeguati: nessuno dei servitori era ammesso da Carolina nel suo regno indiscusso, indiscusso e caotico.
I rubinetti non erano mai chiusi a dovere, ed un filo d'acqua scendeva nel catino, sempre pieno di pentole e piatti. Sul lavabo si accastavano teglie, pentole e pentolini già utilizzati. Le pentole e i pentolini erano vecchi, usati all'inverosimile, eppure trasmettevano un segnale preciso:
" il sugo, il ragù, viene buono perché usi noi. Nessuna pentola nuova potrebbe dare il gusto antico e sempre attuale alle tue pietanze".
Nel cassetto delle posate c'era un vecchio coltello a serramanico, ormai impossibile da chiudere, con la lama affilata tante di quelle volte da essere ormai ridotta quasi della metà. Carolina lo usava sempre per i suoi battuti. Le ceramiche delle pareti erano sempre decorate dagli schizzi del ragù che bolliva per ore e ore.
Da quella cucina uscivano i piatti che deliziavano e arrotondavano l'avvocato Flamino Macaluso Lepore, il quale però aveva una passione segreta, che lo faceva sentire un cospiratore, un delinquente abituale, uno di quei mariuoli che ogni tanto finivano nel suo studio e battendosi il petto mentre proclamavano la loro innocenza ammiccavano con gli occhi furbi e vivaci.

Eccolo lì, un mariuolo, seduto di fronte a lui, con le carte in mano. E già Macaluso Lepore scalpitava, perché quell'appuntamento avrebbe rinviato la gioia segreta che il suo inconfessabile vizio gli regalava spesso, almeno una volta a settimana.
"Ditemi!" intimò al modesto ometto che continuava a rigirare il pezzo di carta in mano.
"Ecco, avvocato, io volevo dire, volevo sapere, insomma voi mi dovete dire…"
"Andiamo, andiamo, cosa sono tutte queste smancerie, venite al punto."
"Avvocato, si può cacciare di casa un morto?"
"Senti bellezza mia, ma tu oggi proprio a me dovevi venire a sfruculiare? Facciamo una cosa, mentre io chiamo la Polizia tu fai sempre in tempo ad andartene…"

 Macaluso Lepore afferrò il telefono e cominciò a girare il disco della composizione.

"Avvocato, questo è il contratto di locazione, questo è lo sfratto e questo è il mio certificato di morte. Cosa possiamo fare?"
Senza nemmeno volerlo, Macaluso Lepore si trovò con le carte in mano: e in effetti tra queste c'era un certificato di morte.
"Ma che state dicendo?"
"E questo, avvocato, è un articolo di giornale che parla del mio caso!"

 

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