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Molti colleghi sono dell'idea che avvocati si nasca e non si diventi. Forse hanno ragione loro.
Un'idea primigenia devi averla in qualche modo dentro di te.
Anche se penso che molti letterati abbiano ripiegato sulla professione forense in attesa che venti più favorevoli arridessero alla loro personale e più intima inclinazione.
Dico così perché io mi sono comportato così.
Sono a un passo dalla laurea quando mi imbatto in un bando sul giornale. È dell'Università Cattolica di Milano.
Si tratta di un corso post universitario in giornalismo (è richiesta la laurea infatti) di tre anni, a numero chiuso, e a pagamento. Assicura alla fine del corso un'occupazione in una redazione di un importante quotidiano.
Ne parlo subito con i miei genitori che conoscono la mia passione più sfrenata: scrivere per me è come andare in mare per un marinaio di acqua salata. Me li ricordo ancora tutti e due. A dire il vero ho forse un ricordo più netto di mia mamma che mi dice, se lo vuoi fare, fallo.
Dopo quattro anni di università, dovrei chiedere loro di compiere ancora un sacrificio per altri tre anni e poi a Milano dove la vita è più cara, si sa.
In quel periodo – manco a farlo apposta – sto leggendo Omaggio alla Catalogna di George Orwell, una specie di breviario dello scrittore senza un quattrino. Poi mi viene in mente Fred Uhlman, l'autoredi quel racconto lungo e meraviglioso che è L'amico ritrovato. Uhlman è un avvocato ebreo che ha fatto fortuna a New York, il suo studio è molto quotato, c'è scritto pure sulla quarta del libro pubblicato da Feltrinelli.
Penso, allora, che tutto sommato anch'io potrei scrivere qualcosa pur facendo l'avvocato e non gravando ulteriormente sui miei genitori che per me hanno già fatto abbastanza sacrifici.
Quello che non mi immagino è che – a distanza di anni – la passione della scrittura si sarebbe comunque ripresentata all'uscio. Bussando furiosamente.
Comunque.
Lascio perdere il corso alla Cattolica.
Anche per colpa della letteratura ho lasciato perdere il giornalismo. Non solo a causa di Fred Uhlman e del suo libro che per me resta uno dei più belli in assoluto che si possa leggere nella vita.
La letteratura (sia pur di genere) è fermamente intrecciata con l'avvocatura.
Ora non riesco più a collocarlo nel tempo maIl socio di John Grisham, e ancora prima Harvard Facoltà di Legge di Turow, avevano seminato in me molto prima la pianta della giurisprudenza, anche se vissuta in un modo un po' troppo romantico.
Quest'ultimo libro è la storia di Scott Turow, l'autore di Presunto innocente, il primo legal thril- ler comparso in Italia con in copertina un'impronta digitale rossa vermiglio sulla copertina bianca di un libro Mondadori.
È la sua storia ad Harvard dove per quattro anni si studia come andare in Vietnam: c'è soltanto quello e arriva alla fine chi ci crede davvero.
Si studia circa quattordici ore al giorno: negli States oltretutto devono sciropparsi migliaia di pagine di casi simili, perché è il precedente a fare legge.
Anche la vita privata va a farsi benedire in quegli anni. Ogni settimana e ogni mese lo studente deve scrivere tesine su tesine, imparando ad esprimersi con la parola scritta (cosa che da noi è impensabile). Il chè mi aveva affascinato perché in qualche modo assistevo al fatto che – già da studenti – i futuri avvocati sviluppavano una familiarità assai stretta con la scrittura. Notte e giorno, oltretutto. Non c'era tempo per altro.
Scott Turow si era iscritto ad Harvard quando era già sposato.
Aveva una moglie con cui si vide ben poco in quei quattro anni. Incredibile. Eppure ce l'aveva fatta. Confesso che quella determinazione mi aveva impressionato.
Lessi Harvard Facoltà di legge (che nel titolo ori- ginale è One L, la sigla che indica la matricola, lo studente neo iscritto) dopo avere scoperto Presunto Innocente.
Maledizione, pensai. Anche questo qui è un avvocato eppure ha scritto un romanzo formidabile.
Sono convinto ancora oggi che a Turow spetti il primato del legal thriller. Mi dispiace per i fautori di Grisham – al quale stiamo per arrivare – ma l'iniziatore del genere, almeno in Italia, è stato Turow, che oltretutto è meno commerciale di Grisham.
Basta guardare anche la produzione dei due. In ogni caso, Presunto innocente mi aveva stregato.
Ne avevano tratto anche un film con Harrison
Ford che interpretava Rusty, il procuratore incriminato per l'omicidio dell'amante.
Stiamo parlando degli anni '80, quel romanzo era straordinario. Non ti faceva capire chi fosse il colpevole fino all'ultimo ed era stato scritto da un avvocato.
Non c'era bisogno che mi iscrivessi a una costosa scuola di giornalismo, anche se la figura dell'inviato per me restava una specie di paese del bengodi.
Mi feci l'idea che per scrivere un grande roman- zo di avvocati non avrei dovuto frequentare nessuna scuola. Speravo e spero ancora oggi in una specie di unzione dall'alto che mi faccia scrivere un legal adrenalinico.
Comunque, la mia personale linea di condotta scrittoria – chiamiamola così – venne ulteriormente rafforzata da Il socio di John Grisham.
Stavo scrivendo la tesi quando uscì quel libro.
Siamo già agli inizi degli anni '90, dieci anni dopo Scott Turow, e altri pezzi da novanta del panorama letterario americano come Tom Wolfe e il suo Il Falò delle vanità, non so se mi spiego.
Il socio fu un'altra maledetta botta di adrenalina.
La storia di quell'avvocato giovane che partiva da zero mi stregò letteralmente. Oltretutto era uno che si alzava sempre all'alba, arrivava in studio prima degli altri e lavorava come un pazzo, cancellando tutto il resto del mondo fuori dalle sue carte.
Per me era il massimo.
Il romanzo possedeva un ritmo indiavolato, era il mio ideale. Circa due anni dopo avrei scoperto il libro – però – più bello di Grisham, quello che ave- va anticipato Il socio e che gli aveva aperto le porte della narrativa.
Il momento di uccidere lo leggo quando sto già facendo la pratica, anzi l'ho appena iniziata.
Lo conosciamo tutti. È la storia di un omicidio del tutto particolare. Un padre negro ammazza due bianchi che gli hanno violentato la figlia. Una storia semplice nella sua ferocia, potremmo dire. In realtà si tratta del libro più potente in assoluto per un avvocato. Lo consiglio a tutti coloro che vogliono fare questa professione assurdamente dolorosa e apparentemente inutile ma che a volte – pochissime – ti proietta su Marte senza passare dal via.
È uno dei pochi libri capaci di insegnare come si facciano le ricerche.
In quel periodo ne scrissi parecchie per lo studio dove avevo iniziato la pratica e devo dire che sembravano delle tesine. Imparai anche quanto siano importanti gli evidenziatori per sottolineare certi concetti, quelli più pregnanti.
Tutto grazie ad un romanzo.
Molti anni dopo sono arrivati altri libri tipo il Guido Guerrieri di Gianrico Carofiglio che hanno sbancato le vendite e hanno reso appieno cosa sia la professione di avvocato.
Devo dire che Carofiglio è entrato parecchio in profondità nella nostra professione con Testimone inconsapevole, anche se il primato della teoria noè del tutto suo. Ciò che importa è quanto abbia saputo rendere il clima che tutti i giorni noi viviamo e ci respiriamo addosso dentro un'aula di tribunale.
Credetemi, a volte ci vorrebbe una mascherina. Ultima annotazione.
Siamo obbligati a frequentare tutti i giorni colle- ghi illetterati, anche i migliori. Non a tutti piace leggere e in fondo – visti i risultati – non credo che per riuscire nella vita sia poi così fondamentale come mi dicevano al ginnasio (che non esiste manco più, al- meno con questo nome).
Credo però che sia allucinante sentire un grande avvocato che ti dice di considerare "carini" i romanzi di Carofiglio, quelle storie in cui almeno tu hai sentito battere tutti i sentimenti e le paure con cui cuore e polmoni hanno convissuto tanti anni di aula.
L'ho sentito dire da un avvocato che scrive tutti gli atti di due o tre pagine, non una riga di più.
Forse ha ragione lui.
Non serve scrivere più di tanto quando sai mette- re tutto l'indispensabile in quattro righe.
Il brutto è che per scrivere anche poche parole bisogna leggere pagine su pagine di libri, anche quelli "carini".
Continuiamo a farlo.
Anche se non serve a a nulla. Ci avviamo alla conclusione.
Oggi, se dovessi rispondere ancora alla domanda "perché fai l'avvocato?" avrei una risposta molto chiara in testa.
Non lo so. Forse perché non so ricamare, come diceva Denys Finch Hutton in La mia Africa. Non solo non so ricamare, ma francamente non so fare altro. Quando si arriva a quarantasei anni molti tramonti sono già calati sulle nostre palpebre. Qualche vittoria sono riuscito ad ottenerla anch'io.
Oggi mi sento come quell'avvocato che magari – senza rendersene conto – ha già finito la sua carriera.
Mi restano più le cause civili che quelle penali. Una volta una giovane collega mi ha chiesto di spiegarle un istituto di civile, visto che facevo prevalentemente quello.
Tutto il penale che avevo sostenuto negli anni passati non se lo ricordava più nessuno. Tanto meno lei, che manco lo sapeva. Mi sono sentito trascolorare, come una vecchia figurina che stinge sotto la pioggia.
Voglio darmi una risposta, voglio darvi una risposta. Come Abramo Lincoln nel film omonimo, interpretato da uno spettrale ed espressivissimo Daniel Day Lewis.
"Fai l'avvocato" dice al figlio "perché è una professione solida, e poi è utile".
Speriamo di essere utili.
Per questo faccio l'avvocato. Nonostante tutto.
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