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Con l'ordinanza n. 1565 dello scorso 22 gennaio, la III sezione civile della Corte di Cassazione, pronunciandosi su una richiesta di risarcimento danni avanzata da una coppia di coniugi per l'errore diagnostico commesso nel corso di un esame ecografico sul figlio nascituro, ha confermato la condanna per il professionista che non aveva informato la madre sulle patologie del feto, posto che l'impossibilità della scelta della madre imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante è fonte di responsabilità civile.
Nel corso del giudizio di merito era stato accertato che, a causa della mancata informazione della grave malformazione da cui era affetto il nascituro, era stato impedito alla madre di interrompere la gravidanza.
Per tali fatti, sia il Tribunale di Napoli che la Corte di Appello di Napoli avevano condannato il ginecologo ecografista.
Quest'ultimo proponeva ricorso per Cassazione deducendo la violazione di legge e falsa applicazione della legge 194/1978 e dei principi in materia di interruzione della gravidanza.
Il camice bianco evidenziava, infatti, come la malformazione del nascituro, consistente in una "agenesia dell'arto inferiore sinistro", poteva emergere esclusivamente tra la diciottesima e la venticinquesima settimana (talvolta anche dopo la ventottesima), ovvero a partire da un arco temporale successivo a quello massimo stabilito dalla legge per l'interruzione ordinaria di gravidanza (entro la dodicesima settimana).
Inoltre il ginecologo si difendeva rilevando come, nel caso di specie, non sussistessero i presupposti per procedere all'aborto terapeutico, che può avvenire anche dopo i novanta giorni dall'inizio della gravidanza quando la diagnosi di malformazione implichi la sussistenza di un grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna: difatti, essendosi la malformazione rilevata solo a seguito del parto, non poteva essere ricompresa fra le patologie che avrebbero comportato un pericolo di vita per la madre tale da consentirle di abortire oltre il termine normativamente previsto.
La Cassazione non condivide le tesi difensive del sanitario, ritenendole manifestamente infondate.
Secondo la Corte, infatti, deve darsi continuità al principio – fatto proprio dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2015 – secondo cui l'impossibilità della scelta della madre imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile.
Di fatti, la gestante, profana della scienza medica, si affida ad un professionista, sul quale grave l'obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste, dovendo eseguire tutti gli esami necessari a consentire una diagnosi affidabile sulla salute del feto.
Posto che il comportamento del medico è fonte di risarcimento del danno, occorre chiarire quali elementi debbano essere provati.
In punto di diritto gli Ermellini ricordano come in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l'onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza - ricorrendone le condizioni di legge - ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale.
Sotto questo profilo, il thema probandum è costituito da un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo (la rilevante anomalia del nascituro, l'omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest'ultima), sicché è indispensabile, quantomeno, provare quegli elementi che si ritengano rappresentativi dell'insieme e dai quali sia perciò possibile derivare la conoscenza, per estrapolazione, dell'intero fatto complesso.
In relazione all'accertamento dell'intenzione della donna in relazione al prosieguo della gravidanza – vertendo questo aspetto sulla prova di un fatto psichico – l'onere probatorio può essere assolto tramite dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare secondo il parametro del "più probabile che non": così, si può ricorrere alla praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili da altri elementi di prova (quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva), gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale.
Con specifico riferimento al caso di specie, è stato accertato che la paziente si sottopose durante la gravidanza a ben sette esami ecografici, la cui attenta valutazione, anche in virtù della loro successione temporale, avrebbe certamente consentito di accertare la malformazione; si è, anche, ampiamente raggiunta la prova circa le scelte che la mamma, in caso di sviluppo del feto non regolare, avrebbe fatto, posto che avrebbe di certo fatto ricorso all'aborto, in quanto contraria a mettere al mondo un bambino con gravi sofferenze.
In virtù di tanto, la Cassazione rigetta il ricorso.
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