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Con la sentenza n. 8461 depositata lo scorso 27 marzo, la Cassazione, adita dagli eredi di una donna deceduta nel corso del giudizio a causa di un carcinoma mammario diagnosticato tardivamente, ha accolto la richiesta vertente sul risarcimento di tutti i danni patiti a seguito di quella ritardata diagnosi, specificando che "laddove il danno dedotto sia costituito anche dall'evento morte sopraggiunto in corso di causa ed oggetto della domanda in quanto riconducibile al medesimo illecito, il giudice di merito, dopo aver provveduto alla esatta individuazione del petitum, dovrà applicare la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non" al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite".
Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dalla richiesta di risarcimento danni avanzata da una donna per il pregiudizio complessivamente subito per la ritardata diagnosi di un carcinoma mammario, a causa del quale aveva dovuto sottoporsi a cure chemioterapiche invasive, a terapie ormonali e due interventi di mastectomia radicale; nel corso del giudizio, l'attrice decedeva per recidiva, sicché la causa veniva proseguita dagli eredi.
Nel corso del giudizio emergeva che la donna si era sottoposta, nel mese di gennaio, a una ecografia alla mammella e ad una successiva visita senologica con diagnosi che escludeva la presenza di carcinomi e/o masse tumorali; nel successivo mese di ottobre, ella si era recata presso un altro studio diagnostico per rinnovare l'ecografia e, in ragione dell'esito preoccupante dell'esame, veniva sollecitata a recarsi presso l'Istituto Tumori, ove le veniva diagnosticato un tumore maligno.
Il Tribunale di Massa Carrara, a seguito di CTU, respingeva la domanda, ritenendo che, pur riscontrata la negligenza del medico, non erano emerse prove sufficienti a dimostrare il nesso eziologico con la patologia e con il seguente decesso della paziente che si sarebbe, in ogni caso, verificato.
La Corte d'appello di Genova, rinnovato l'accertamento peritale, riformava la sentenza, confermando la sussistenza della colpa medica dei sanitari che avevano ritardato la diagnosi; i giudici di seconde cure, tuttavia, accoglievano solo parzialmente le richieste risarcitorie avanzate dagli attori.
Gli eredi proponevano, quindi, ricorso per Cassazione, sostenendo che la Corte d'Appello non si era attenuta al principio del "più probabile che non": dopo aver ritenuto sussistente la colpa del medico, la sentenza impugnata aveva mal applicato i principi civilistici in materia di nesso di causalità e, in relazione all'evento morte sopravvenuto in corso di giudizio, aveva omesso di verificare se la morte della donna dovesse essere ascritta alla condotta negligente del medico.
In particolare, i ricorrenti lamentavano che la motivazione era riferita non alle conseguenze della condotta negligente costituita dall'evento morte, ma soltanto all'ipotetica maggiore durata della vita di cui la donna avrebbe potuto godere, fondando tale statuizione su una erronea e lacunosa interpretazione della CTU rinnovata in grado d'appello.
La Cassazione condivide le censure formulate,.
Gli Ermellini – premessa la consolidata giurisprudenza secondo cui in tema di responsabilità civile, il nesso causale, sebbene regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale, va accertato secondo la regola "più probabile che non" – forniscono importanti specificazioni sull'iter che deve compiere il giudice nel vagliare le richieste di risarcimento danni correlate alla responsabilità professionale medica.
Più nel dettaglio, essendo il sanitario tenuto a espletare l'attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, accertata l'omissione di tale attività, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento stesso. A seguito di tale positivo accertamento, il giudicante è tenuto a dar ristoro a qualsiasi evento lesivo correlato a quell'omissione, a prescindere se sia derivata la morte del paziente posto che anticipare il decesso di una persona già destinata a morire perché afflitta da una patologia, costituisce pur sempre una condotta legata da nesso di causalità rispetto all'evento morte, ed obbliga chi l'ha tenuta al risarcimento del danno; quando, invece, il decesso sia intervenuto, anche se in corso di causa, il giudice di merito, dopo aver provveduto alla esatta individuazione del petitum, dovrà applicare la regola del "più probabile che non" al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite.
Ciò chiarito in punto di diritto, la sentenza in commento rileva come la Corte territoriale, pur enunciando il principio del "più probabile che non" non ha fatto corretta applicazione in quanto ha applicato il principio di causalità esclusivamente in relazione al lasso temporale di vita non vissuta, focalizzando il danno non sull'evento morte ma sul probabile tempo di sopravvivenza.
Diversamente, avrebbe dovuto procedere alla valutazione anche del danno costituito dal decesso in quanto nel giudizio di risarcimento del danno è consentito all'attore chiedere per la prima volta in appello un risarcimento degli ulteriori danni, provocati dal medesimo illecito, manifestatisi solo in corso di causa: le conclusioni omnicomprensive dell'attrice riferite a "tutti i danni" subiti includevano certamente quelli che dal medesimo fatto si erano manifestati con progressiva gravità nel corso del processo.
La Corte accoglie, quindi, il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Genova, in diversa composizione, la quale dovrà attenersi ai princìpi di diritto sopra enunciati.
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