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Crediti professionali maturati e non riscossi: rientrano nella comunione de residuo?

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 Frutti e proventi costituiscono due fattispecie differenti.

Difatti, questi ultimi a differenza dei primi, se non consumati rientrano nella cosiddetta comunione de residuo, in quanto non vi è distinzione tra quelli già riscossi e quelli da riscuotere.

La questione è stata esaminata in occasione di una vicenda portata all'attenzione della Corte di Cassazione da una ex moglie, la quale conveniva in giudizio l'ex marito che, dopo la sentenza di scioglimento della comunione, aveva ottenuto proventi conseguenti alla propria attività lavorativa, per cui la donna reclamava il suo diritto ad ottenerne il 50 %.

La domanda veniva rigettata in entrambi i gradi di merito poichè il credito veniva ritenuto "non esigibile".

La Suprema Corte prende invece correttamente in considerazione la distinzione tra frutti e proventi.

Difatti, occorre considerare tutto ciò che costituisce corrispettivo dell'attività svolta e che non sia stato ancora percepito al momento dello scioglimento della comunione, al pari dei proventi già percepiti e dei quali i coniugi sono contitolari e ciò si verifica persino qualora dovesse trattarsi di diritti non esigibili. 

 L'unica condizione richiesta è che si tratti pur sempre di proventi relativi a rapporti instaurati fino allo scioglimento della comunione, sicché anche quello che deve ancora percepirsi da un'attività svolta fino al predetto momento, spetta alla comunione residuale.

Di conseguenza, i proventi ricadenti nella previsione di cui all'art. 177, comma 1 lett. c), c.c. vanno individuati con riferimento a quelli sorti nel periodo in cui era perdurante la comunione legale e nella misura in cui permangono allo scioglimento della stessa, a prescindere dal momento in cui di fatto vengono riscossi dall'avente diritto.

Tribunale e Corte di Appello, avevano accertato che, il credito era maturato fin dal 1979, dato non rilevante rispetto alla circostanza che l'ammontare fosse poi stato calcolato nel 2009.

 Piuttosto, il punto messo in discussione era che i proventi maturati nel corso del matrimonio, quantunque non riscossi al momento dello scioglimento della comunione, rientravano nella comunione residuale, sull'ovvio presupposto che, non essendo stati riscossi, nemmeno potevano essere stati consumati.

Pertanto, una volta accertato che il credito del marito era maturato in costanza di matrimonio ed esisteva in concreto al momento dello scioglimento della comunione esso, seppure non riscosso, costituiva una componente attiva del suo patrimonio.

D'altra parte, il patrimonio è generalmente inteso come insieme di rapporti giuridici attivi e passivi aventi contenuto economico, unificati dalla legge in considerazione dell'appartenenza al medesimo soggetto.

In conclusione, trattandosi di un provento non consumato, il credito professionale in questione deve farsi rientrare nella disciplina dell'art. 177, 1 comma lett.c) c.c. ed essere ritrasferito alla comunione differita, come stabilito dalla più volte ricordata Cass. 2597/06.

Dando atto dei precedenti giurisprudenziali di altro avviso e delle critiche successive della dottrina, la Cassazione, con l'ordinanza n. 16993/2023 accoglie il ricorso affermando che, i proventi delle attività separate cadono nella comunione differita o de residuo anche se non ancora percepiti al momento dello scioglimento della comunione, al contrario di quanto prescritto espressamente, dalla lett.b) per i frutti dei beni personali ed anche se ancora non esigibili, in difetto di previsione in tal senso, purché costituiscano il corrispettivo di prestazioni o del godimento di beni relativi al periodo di vigenza della comunione legale.

Tra essi sono compresi proprio i crediti che il professionista vanta verso clienti per prestazioni già eseguite e non ancora pagate.

 

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