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Quando ad un'assoluzione segue una condanna

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Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione n. 5890, depositata il 7 febbraio 2019, torna sul tema della sentenza di condanna emessa a seguito di una sentenza di assoluzione, precisando il percorso logico motivazionale che deve seguire il giudice di appello.

Nel caso di specie la Corte di Appello operava la riforma della sentenza di assoluzione in accoglimento del ricorso della parte civile condannando per omicidio colposo l'imputato e liquidando una provvisionale in favore della persona offesa.

Il caso riguardava un gestore di un ristorante che avrebbe somministrato ad un giovane allergico, pur essendo a conoscenza degli alimenti che non avrebbe potuto ingerire, cibi contenenti tali allergeni causando così lo shock anafilattico del giovane.

Proponeva ricorso avverso la sentenza di riforma della Corte di Appello l'imputato il quale contestava come la riforma della sentenza di primo grado fosse stata effettuata senza una rinnovazione dell'assunzione della prova dichiarativa e ciò in contrasto non solo con la lettera del novellato art. 603 bis c.p.p., ma anche della giurisprudenza della Corte EDU. Evidenziava peraltro come la Corte territoriale avesse basato principalmente ed esclusivamente la sua decisione sulla rinnovata escussione delle sole persone offese da reato (tra cui una costituita anche parte civile) senza provvedere ad una verifica meticolosa delle circostanze descritte nè aver svolto un controllo di attendibilità più rigoroso sulle dichiarazioni assunte. 

La Corte, sulla scorta della maggioritaria giurisprudenza in tema di assunzione delle prove e di motivazione, accoglie il ricorso proprio a causa della mancata riassunzione delle prove dichiarative da parte del giudice di seconde cure.

Osserva infatti come il giudice di primo grado sia pervenuto alla assoluzione del ricorrente sulla base di una prova documentale e di diverse dichiarazioni, dopo aver sottolineato egli stesso come, per quelle rese dalle persone offese - in parte costituite parte civile - il controllo di attendibilità fosse stato più scrupoloso e penetrante in quanto soggetti portatori di interessi contrapposti a quelli dell'imputato.

Il giudice di primo grado infatti aveva ritenuto che le persone offese sentite non avessero reso delle dichiarazioni concordi o comunque tali da sostenere la colpevolezza dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio.

In questo quadro istruttorio, i giudici di legittimità ricordano come: "Si è poi precisato, prima con una decisione della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Dan c. Moldavia del 05/11/2011) e poi del Supremo Collegio (Cass. S.U. n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, e Cass. S.U. n. 187620 del 19/01/17, Patalano), che per adempiere correttamente al proprio onere di motivazione c.d. rafforzata, il giudice che pervenga ad una reformatio in pejus debba operare una nuova assunzione diretta dei testimoni nel giudizio di impugnazione allorchè da tale omissione derivi la violazione dell'art. 533 c.p.p. in relazione all'art. 603 c.p.p., come interpretato sulla base dell'art. 6 CEDU, e in particolare del par. 3, lett. d), che assicura il diritto dell'imputato di "esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico"." 

Nel caso di specie, dunque, i giudici di appello avevano errato nell'operare una rinnovazione solo parcellizzata delle prove dichiarative assunte nel corso del giudizio di primo grado finendo per svalutare la rilevanza probatoria di altre emergenze processuali, di carattere documentale, quado si sono posti a valutare l'attendibilità delle prove d'accusa rinnovate.

In pratica, senza una integrale rinnovazione delle prove dichiarative assunte in primo grado e una loro valutazione con motivazione rafforzata il giudice di appello non può operare una riforma della sentenza di assoluzione di primo grado. 

 

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