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Le violazioni fiscali sono rimosse dall’assoluzione di reato penale tributario?

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Riferimenti normativi:Art.7, c. 4, D.Lgs. n. 546/1992

Focus: I contribuenti sono assoggettabili a imposizione fiscale se assolti in un giudizio penale per reato tributario? Sulla tematica si è pronunciata la Corte di Cassazione con le sentenze nn.2120, 2115 e 2133 del 2024 emesse nei confronti dei soci di una società, imputati in un processo penale per reati tributari, nei cui confronti l'Agenzia delle Entrate aveva recuperato a tassazione le rispettive quote di partecipazione al profitto di reato.

Nel caso di specie quattro soci di fatto di una società si erano appropriati di una notevole somma distraendola dal fallimento di un'impresa individuale tramite una società "paravento". La quota di partecipazione di ogni socio al profitto di reato commesso in concorso con gli altri soci era stata ripresa a tassazione dall'Amministrazione finanziaria, con distinti avvisi di accertamento Irpef e Iva, per l'anno 2004, a titolo di "reddito diverso" ai sensi dell'art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537. Gli avvisi di accertamento sono stati impugnati da ogni socio dinanzi alla Commissione tributaria provinciale che ha accolto i loro ricorsi perché l'Amministrazione finanziaria non aveva fornito prova convincente che gli imputati avessero percepito quelle somme. L'Agenzia delle Entrate ha impugnato le sentenze di primo grado dinanzi alla Commissione tributaria regionale con distinti appelli. 

 Gli appelli dell'Amministrazione finanziaria sono stati rigettati perchè in sede penale la Corte d'Appello aveva accertato che la somma era stata percepita dalla società estera, avente personalità e patrimonio distinti, mentre non era emersa prova che la somma fosse stata percepita dagli imputati. Questi ultimi, pertanto, erano stati assolti parzialmente per alcune imputazioni e condannati solo a restituire l'importo distratto quale conseguenza della loro responsabilità per il delitto di abuso d'ufficio. L'Ufficio finanziario, di conseguenza, ha proposto ricorso per Cassazione eccependo come primo motivo che i giudici di secondo grado, in base agli esiti del giudizio penale, avevano ritenuto i soci non assoggettabili a imposizione fiscale senza aver valutato compiutamente il fatto che dalla società "paravento" l'ingiusto profitto del reato fosse rifluito ai soci di fatto e per questo recuperato a tassazione come reddito diverso. Con il secondo motivo l'Agenzia delle Entrate ha eccepito che la sentenza, in violazione dell'art. 185 del codice penale, ha interpretato la decisione della Corte d'Appello ritenendo che da essa scaturisse per i soci un obbligo risarcitorio e non restitutorio delle somme percepite, al fine di escludere che gli stessi avessero effettivamente percepito l'importo poi ripreso a tassazione. Infine, con il terzo e il quarto motivo, l'Amministrazione finanziaria ha lamentato che i giudici non avevano valutato correttamente gli elementi addotti a sostegno degli atti impositivi e quelli desumibili dalle sentenze penali tenuto conto che, nel caso specifico, le presunzioni offerte erano idonee a provare la sussistenza di un maggior reddito imponibile in capo ai contribuenti. 

La Corte Suprema ha esaminato congiuntamente i primi tre motivi del ricorso, perché connessi, ritenendoli fondati. In particolare, ha ritenuto illogica la tesi della Commissione tributaria regionale secondo la quale vi sarebbe stato un arricchimento della sola società, perché ritenuta dalla Corte d'Appello di per sé soggetto autonomo sotto il profilo giuridico e patrimoniale. In pratica, nella sentenza non si era tenuto conto degli elementi che l'ufficio aveva evidenziato richiamando alcuni passaggi delle sentenze penali, nè del fatto che la condanna degli imputati a restituire un importo corrispondente alla somma distratta faceva desumere la loro responsabilità personale ed evidenziava che tale somma costituiva il profitto del reato accertato. La Corte ha richiamato il principio generale per cui "alla sentenza penale irrevocabile – sia essa di condanna o di assoluzione – non può essere riconosciuta alcuna automatica autorità di cosa giudicata, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l'accertamento degli uffici finanziari; ciò in quanto nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dall'articolo 7, comma 4, del D.lgs. n. 546/1992, e trovano ingresso, in particolare, anche presunzioni semplici, che di per sé sarebbero inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (Cass. n. 27814/2020; Cass. n. 16262/2017). Ove tale valutazione manchi la sentenza di merito è censurabile. Pertanto, le risultanze del giudizio penale, cristallizzate nella sentenza, possono essere prese in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui detta sentenza è destinata a operare, essendo comunque tenuto a procedere a un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio (Cass.n. 28174/2017; Cass. n. 10578/2015; Cass. n. 19786/2011)". Alla luce di tale principio, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza della Commisione tributaria regionale con rinvio perchè i giudici di secondo grado si erano limitati a recepire il contenuto della sentenza penale senza svolgere alcun altro apprezzamento del complessivo materiale indiziario sottoposto alla loro attenzione ricavabile dagli stessi atti del giudizio penale.




 

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