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L'ombra della Colpa - Io, avvocato che non riesce a chiedere i soldi ai clienti

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 E' inutile dirlo. Sto andando in carcere. Dalla Salmaso. Sono riuscito a sopportare l'udienza ma ho bisogno di sapere come stia. Ho necessità di una spiegazione, ammesso che voglia darmela o sia in grado di farlo. Appena arrivo ed entro in matricola, trovo il mio amico Giovanni. E' il capo, qui dentro. Si porta addosso anni pesanti di buio sulle spalle ma ne dimostra meno. Mi ha insegnato tante di quelle cose che la mia gratitudine nei suoi confronti non si potrebbe spegnere mai. Sono arrivato qui da novellino e il mio primo approccio fu fallimentare. Mi apostrofò per un mio errore davanti al GIP. Non si è mai fatto problemi di sorta. L'ordinamento penitenziario per lui non ha segreti e gli avvocati che sbagliano li divide in due categorie:gli sbruffoni e gli umili. Fortunatamente, dopo essermi preso la mia lavata di capo in pubblico, ebbi la buona idea di domandargli scusa. Lo conquistai per sempre. Da allora mi ha elargito consigli, suggerimenti preziosi come non se ne trovano nei libri di testo, cavilli prodigiosi. L'esperienza di un vecchio secondino può accendere fuochi magnetici dentro le caverne più buie.

- Mario, non sta ancora bene. E' in infermeria. Se vuoi sapere come la penso, ti dico che ha cercato di uccidersi sul serio. Quella signora – anzi quel Giudice – non scherza. Le cose le fa bene. Non bluffa.

- Giovà, ho bisogno di parlarle. Devo capire.

- Ti accompagno dal medico. Se per lui sta bene, ti faccio entrare subito.

- Grazie.

Ci facciamo tutti i corridoi che portano all'infermeria. Attraversiamo un paio di cancelli che i colleghi di Giovanni aprono rispettosamente. Troviamo il tempo di consumare un buon caffè allo spaccio dove non finisco di ricevere pacche sulle spalle dai colleghi del mio virgilio. Essere stato un difensore di ufficio sempre reperibile e dotato di gentilezza ha i suoi lati positivi. Il medico mi autorizza a parlare con la Salmaso per dieci minuti senza affaticarla.

- Non le dia notizie perigliose per la salute.

- Dottore, si vede che lei ama l'umanesimo e le lettere antiche. L'aggettivo periglioso mi riporta al ginnasio e ad Ulisse.

Il dottore sorride.

- A dire il vero io ho fatto lo scientifico ma i minuti restano dieci, avvocato Squinzati.

Sorrido anch'io. Sto per entrare ma Giovanni mi tiene per una manica.

- Mario…

- Che c'è Giovà ?

- Ne uscirai bene.

- Da cosa ?

Ho già capito. Provo il brivido della vergogna.

- Fai il furbo con me ? E' uno schifo. Tieni la testa alta quando sarà il momento.

Se ne va facendomi una carezza. Lui. Non gli ho mai visto fare un gesto simile a nessuno. Quasi quasi mi commuovo. Burbero come carta vetro sulla pelle, capace di sorridere soltanto per procura. Resto impalato fuori dalla porta e penso a quanta tenerezza si nasconda in un uomo che per trent'anni ha sentito i cancelli del carcere aprirsi e chiudersi tutti i giorni dietro di sè. Vorrei avere una sacca con dentro del tempo per regalarmene un poco di quello passato e donarne a Giovanni con cui – me ne sono accorto ora – ho finito per invecchiare.

Vorrei aprire quella borsa magica per tornare indietro e non cadere più in un favoreggiamento da idiota. Non ripetere ciò che ho fatto. Con consapevolezza, oltretutto. Vale più un etto di prosciutto per saziare la fame di un ragazzo che non mangia da tre giorni, o la reputazione di un avvocato ? Quanto valgo come persona ? Ogni volta che qualcuno parla di questa mia personale disperazione sento salire la vampa della vergogna. Non so mica se la mia sia catalogabile come buona azione. Secondo me è un atto da stupidi che sto pagando caro.Non si fanno sconti, signori. Massime ai coglioni come l'avvocato Squinzati che difendono le persone non con il diritto ma brandendo il senso della strada, quello che i clienti invocano quando latrano in studio come bestie ferite. Anch'io mi sento vulnerato, a morte. Devo cercare di normalizzare la disperazione, come scrisse Alberto Moravia in 1934. Soltanto così posso sopravvivere alla mia personale inquietudine, a questa domanda escatologica che continuo a pormi: perché proprio io ? C'è un fine più alto, un orizzonte ultimo e più nobile che ora non sono nella condizione di poter avvistare ? Busso e apro la porta dopo aver sentito un avanti sottile come un soffio. Un sussurro che scivola via come la carezza di prima. Sto diventando sentimentale. Deve essere un effetto collaterale del mio precoce invecchiamento da penalista che favorisce i delinquenti.

 E' a letto, in una stanza da cui si vede uno spicchio di mare in lontananza, preceduto dal verde delle campagne a terrazze. Le nostre fasce.Lo sguardo è sempre quello,acciaio fuso, ma stavolta con qualcosa di tremolante in fondo alle pupille. Una breccia si è aperta nell'anima del giudice. Un crollo inaspettato che deve avere sorpreso anche lei. Ci salutiamo formalmente, come al solito. Mi siedo. Le domando se si senta bene e le porgo una rosa bianca.

- Questa è per lei.

Mi guarda per un attimo, un battito di ciglia, poi la prende e la annusa. Spalanca un sorriso che fa concorrenza al sole di fuori. Mi stringe la mano, le sue unghie si conficcano nella mia carne ma non emetto un gemito. Le scappa una lacrima. Trema. Cosa le chiedo, cosa posso chiedere ad una donna così provata ? Ha abusato di suo nipote ? E' per questo che ha cercato di togliersi di mezzo ?

- Sono disperata, Mario. 

 E' la prima volta che mi chiama per nome.La disperazione ha travolto le barriere sociali tra di noi.

- Pensare a mio nipote che non mi guardi più o pensi di me qualcosa di poco positivo, mi annienta. Ho bisogno di vederlo. Devo parlargli. Non ce la faccio ad andare avanti se non ho un segnale da mio nipote, che sta bene, che mi vuole sempre bene. Voglio sapere che per lui non è cambiato niente.

- Aspettiamo l'ordinanza, magari è positiva. Non credo sia andata male.

Le racconto per sommi capi l'udienza. Quando le parlo del PM e della figura che ha fatto, mi sembra perfino di scorgere l'ombra di un sorriso di tra le labbra pallide, tirate per non piangere davanti a me come una pioggia di settembre. Ci siamo arrivati, ormai. A settembre, intendo dire. La luce sul mare è più cruda, i colori sono netti come se qualcuno passasse a lavarli tutte le notti ed anche l'aria sa già meno di mare e molto più di terra. Devo andare. I miei dieci minuti sono spirati. Non appena mi arriva l'ordinanza, torno, anche se spero di reincontrarla a casa sua, ai domiciliari. Mi stringe il braccio ancora una volta. Mi guarda.

- Mario ?

- Si ?

- Non si lasci abbattere. Lei è l'unica speranza che ho. Sono completamente nelle sue mani.

E con questo ultimo, postremo fardello che pesa come una montagna o una miniera di rame, ci lasciamo. Esco dalla sua stanza tra il contento e l'affaticato a livello mentale. Pensavo di chiederle qualcosa sul suo gesto ed invece mi sono limitato ad ascoltare il suo stato d'animo, la sua condizione attuale, manco fossi un registratore di sensazioni. E' come quando devo chiedere i soldi per il mio lavoro. Mi prefiggo di farlo come prima cosa e poi invece non lo realizzo neanche all'ultimo. A volte mi sento davvero un pezzo d'osso in balia di certi marosi che arrivano fino a riva. Una cosa però me la porto via, con me, da questo colloquio. Non posso lasciarmi andare.Per nessun motivo. Prosciutto del cazzo e favoreggiamento cosciente.

Proprio non posso.

 

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