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L'ombra della Colpa - I colleghi che sanno tutto, non c'è cosa più spiacevole nella professione

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 Quando sono obbligato ad attendere l'esito di una camera di consiglio, vago per i corridoi o bevo grandi tazze di caffè in cortile. Non riesco a stare fermo. Non voglio stare in aula, con i clienti che sembrano sull'orlo del baratro. Chissà perché anche la persona migliore – quando si trasforma in un assistito – muta le proprie sembianze. Forse sono io ad avere la sindrome del perseguitato. Mi sembra di guardare ogni volta dentro un buco profondo una decina di metri, buio, in cui puoi gridare tutto quello che vuoi anche se nessuno ti ascolterà. La Salmaso sta assumendo la sua personale fisionomia da condannata. Vado a fare due passi in santa pace.Agata è ad assolvere le commissioni nelle cancellerie. Questo processo rischia di paralizzare tutta la nostra attività professionale e io devo pur vivere. Siamo sotto pressione. Suona il telefonino. Un prefisso di Milano. Rispondo. Un operatore con timbro siciliano che mi chiede se conosca mio padre.

- Lo conosce ?

- Chi parla scusi ?

- E' l'Eni Gas.

- No, volevo sapere il suo nome.

- Non importa. Lo conosce o no ?

- Importa eccome. Cos'è, un interrogatorio ?

- Senta, io già le sto facendo una cortesia e…

- No, lei mi sta rompendo i coglioni e siccome è un anonimo non le dico un bel niente e la prossima volta vi denuncio pure perché state violando la mia privacy.

- Guardi che noi…

- Andate affanculo.

Mi ci mancano pure gli operatori anonimi. Tutti i giorni ricevo dalle due alle tre telefonate di questi scassacazzi che telefonano sempre nei momenti meno opportuni. Il loro orario preferito è verso le 13.30 di pomeriggio, quando le persone stanno riposando o tirano un respiro. Deve essere una policy aziendale: colpiteli quando sono con le difese abbassate. Maledetti. Mi bevo un caffè e vado a fare due passi, per sgranchirmi un poco le gambe anchilosate. Ho bisogno di fare movimento per non pensare. Spero che questa camera di consiglio termini in fretta. Suona la campanella. Corro verso l'aula. Di qualcosa bisogna pur morire.

Disse Sean Connery ne Gli Intoccabili.

 Il Presidente legge l'ordinanza scandendo le parole. Ammettono la testimonianza del minore alla presenza di un esperto in psicologia infantile che dovrà fare da ausilio. Chiedo rispettosamente che l'esame venga videoregistrato, almeno per una volta avremo tutte le prove del mondo di cosa passi nell'animo del bambino mentre risponde. L'udienza viene rinviata tra un mese ed io posso finalmente respirare. Saluto la Salmaso con una stretta di mano e vado via. Le dico di stare tranquilla perché questa tessera del mosaico era l'unica a mancarmi. Non replica. Ha capito che la mia intuizione non è capace di turbare nessun equilibrio ma ci servirà, sarà preziosa. Quando sto per uscire, anzi sono nel corridoio al galoppo come mio solito, con la toga arrotolata sopra il braccio, Tardito fa segno di volermi parlare. Mi dice che il mio nuovo difensore gli ha parlato ma che tuttavia non si sono messi d'accordo per un patteggiamento ai minimi. Ci guardiamo negli occhi per un istante che sembra eterno.

- Volevo che lo sapesse da me.

E se ne va. Resto in quel corridoio che mi sembra più ampio all'improvviso. Senza riuscire a replicare. Se non riesco a patteggiare, non posso chiudere subito il procedimento disciplinare. Non posso neanche patteggiare una pena più alta di quella concordata con Franco perchè rischierei di fornire materiale utile al consiglio. Potrebbero cioè irrogarmi una sanzione più elevata della censura. Riparto con il mio passo d'ordinanza verso il mondo esterno al tribunale.

Il ragno nero che mi prende le notti non vuole andare via.

 Arrivo in studio. Poso borsa e toga ai soliti posti. La normalità mi fa bene. Corro in bagno. La colite post udienza si fa sentire. Sono sempre una specie di corpo senziente che non si controlla. Le emozioni dominano il mio soma. Non me ne accorgo ma è come avere un esercito capillare di microoccupanti che prima o poi ritrovi dentro di te. Mica gestisci tu le emozioni. Sono loro a sapere dove andare, il punto in cui colpire. Mi sento come Sarti Antonio, il questurino di Loriano Macchiavelli, lo scrittore bolognese di noir che scrive gialli anche con Guccini, il cantautore barbuto e pletorico. Ogni udienza ha un portato, un precipitato fisiologico, che arriva prima, oppure dopo. Non si scappa, signori. Si può vivere così, mi dico io, sempre legati ad un colon che a volte sembra un serpente arrotolato su sé stesso o un derviscio in amore ? E' anche un momento di scarico intellettuale, perdonate l'espressione. Mi rilasso. Anche in studio mi porto dietro un libro così da poter leggere qualche pagina che non sia di solo diritto. Non capisco quelli che non leggono perché sostengono che la nostra professione li porti già ad affaticarsi su codici e riviste. Una volta avevo una fidanzata che intesseva iperboli del fratello medico. Sai, mi diceva,legge tantissimo. Scoprii poi che lo scienziato lettore – a parte le dispense scientifiche – aveva letto l'ultimo libro dieci anni prima. Una specie di morto che cammina, pensai io. Ma come si fa a non leggere mai un libro, a non spalancare la vita e la mente su di una piazza dove sai che nella realtà non andrai, a non farsi un poco irretire dalle parole mischiate di un gioco a cui non avevi pensato ? Maledetti, medici analfabeti e fidanzate dell'ostia. Leggo due pagine de L'uomo senza qualità. Sul water. Musil. Un mattone come Proust. Balsamo cerebrale allo stato puro. Per i giuristi dovrebbe essere dichiarato obbligatorio. E' un incastro di ragionamenti sottili come sillogismi medievali, un labirinto dove puoi perdere e ritrovare lo stesso concetto nell'arco di un'unica pagina, una palestra dialettica di insuperabile bellezza, una parete di settimo grado capace di farti vedere luna e sole intrecciati insieme sulla stessa via. Posso tornare ai posti di combattimento. Che giornata. Apro il computer e vado sulla posta dell'ufficio. Non mi sembra ci sia nulla di importante. Soltanto una mail cattura la mia attenzione. E' di un collega sconosciuto che comunica di avermi affiancato nella procedura di un mio cliente. Come incipit dice che il nostro assistito mi ha già informato al riguardo. Resto per un istante con un dito a mezz'aria. E' un cliente con il quale sono uscito a cena; con lui il rapporto andava al di là del semplice binomio avvocato – difensore. Dopo tre anni di cause, questo è quanto mi ha riservato. Dieci giorni fa ci eravamo sentiti per l'ultima causa e tutto andava bene. Liscio come l'olio. Oggi mi ritrovo una specie di benservito datomi da un collega che mi dice anche cosa farebbe lui e come. E' una delle cose più spiacevoli della nostra professione. Il benservito che i clienti non hanno il coraggio di darti facendotelo arrivare per mano terza. Come al solito, la mia mente reagisce in automatico. Invio una mail al collega decisamente olofrastica.

- Gentile Collega, non so nulla di quanto lei mi dice e comunque prendo atto della sua difesa in aggiunta alla mia – senza che il nostro Cliente mi abbia comunicato alcunchè – e per tale motivo dismetto il mandato.

Chiamo Agata al telefono e le scarico via cavo tutta la mia frustrazione, manco fosse una colata di lava rovente che devo allontanare dal mio stomaco già provato da altre emozioni. Resta un momento in silenzio anche lei e poi mi dice di mandarlo al diavolo. Con tutto quello che abbiamo fatto per questa persona e sua moglie. In questi casi prendo carta e penna e scrivo senza indugi la dismissione del mandato. Non mi sentirò bene fino a quando non l'avrò inviata al cliente. Fine di un rapporto professionale ed umano in quattro righe. Una fucilata che non avresti mai pensato di sparare. Questa è l'altra faccia della nostra professione. I rapporti umani che ci illudiamo siano complementari rispetto a quello professionale sembrano solidi, ma non lo sono per niente.Mai. Sono tutti scritti sulla sabbia. C'è qualcosa di impercettibile che sfugge al controllo. E' un processo vischioso, di cui è difficile rendersi conto ma il cliente può mascherare abilmente i propri intimi malumori. Mi rendo conto di avere detto a questa persona un'infinità di no, perché la mia coscienza professionale me li dettava.Avrà incontrato qualcuno di più arrendevole.

Auguri.

 

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