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Un principe del Foro ma un "cretino totale"

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 L'avvocato Arturo Florestano sarebbe stato senz'altro un uomo di notevole intelligenza e di ampio spessore culturale se la popo­lazione mondiale fosse stata costituita da individui decerebrati o al massimo dotati di uno o due neuroni.

In quest'ultimo caso, la decina di neuroni scarsi che vaga­va senza meta nel suo testone sovradimensionato, ricoperto da una folta chioma bionda, avrebbero indubbiamente consentito all'esimio professionista di eccellere nel difficile agone forense.

Purtroppo per lui, però, nel mondo reale l'avvocato Arturo Florestano era un esempio emblematico di "cretino totale", un caso di scuola da inserire nelle enciclopedie.

In tribunale si vociferava malignamente che nel Dizionario Enciclopedico Treccani, alla voce coglione fosse stata accostata la sua fotografia, con tanto di barba a pizzetto e sorriso affascinante.

Arturo Florestano, in effetti, era addirittura audace nella sua ignoranza. Analitico e profondo nella sua inconcludenza argo­mentativa. Raffinato, quasi galante, nella sua maleducazione. So­brio nella sua scomposta eccessività. Elegante e forbito nella sua confusione espositiva, che non perdeva occasione di sfoggiare durante le arringhe e nel corso delle numerose trasmissioni tele­visive delle quali era gradito e riverito ospite. Tutte caratteristiche che lo inserivano a pieno titolo nel ri­stretto novero dei "Principi del Foro".

 A tutte queste qualità si contrapponeva un'ingiustificata e ridicola presunzione che Florestano ostentava con singolare e ostinata costanza, risultando nella maggior parte delle occasioni involontariamente comico.

In altre parole, Arturo Florestano, che aveva almeno il buon gusto di non farsi chiamare professore, era una gigantesca, ma­stodontica, statuaria grantestadecazzo travestita da avvocato in carriera: questa era l'opinione di Alessandro Gordiani, quaran­tacinquenne avvocato penalista romano, col dono naturale del costante rovello e dell'indomabile dubbio.

Non per nulla qualcuno dei suoi amici aveva con affetto ri­battezzato Gordiani "er cacadubbi", per l'inveterata abitudine di mettere sempre in discussione le scelte e le strategie processuali sue e dei suoi colleghi, ma anche per la sua pignoleria, che alle volte rasentava la compulsione.

Per qualche oscura e insondabile ragione, la cui ricerca aveva procurato al povero Gordiani più d'una notte insonne, Flore­stano era diventato in breve tempo un professionista potente e molto ammanicato.

Quell'afoso pomeriggio d'inizio settembre – uno di quei pe­riodi dell'anno in cui i colori intorno avvertono che l'estate è ormai agli sgoccioli, mentre invece i calori sembrano voler si­gnificare esattamente il contrario – Gordiani l'aveva chiamato al telefono per discutere con lui di un processo in cui figuravano entrambi come difensori di alcune società collegate, la cui udien­za sarebbe stata celebrata di lì a una ventina di giorni. Florestano difendeva la potente e ricca controllante, mentre Gordiani rappre­sentava una delle controllate più piccole.

Per l'esattezza, più che le due società, avrebbero dovuto di­fendere i membri dei loro consigli di amministrazione, i quali, dopo aver fatto volatilizzare come per magia oltre cinque milio­ni di euro, avevano ritenuto opportuno sparire dalla circolazione, non prima però di avere portato alla bancarotta il gruppo di aziende da loro amministrato.

Florestano difendeva una decina d'imputati, le cui posizioni erano in alcuni casi in evidente contrapposizione l'una con l'al­tra. La legge, come il codice professionale deontologico, prescri­veva che in questi casi l'avvocato dovesse scegliere da che parte stare e quale degli imputati difendere, per evitare la possibilità che si verificasse un vero e proprio conflitto d'interessi.

Florestano però nel corso degli anni aveva elaborato e poi perfezionato un'interpretazione molto personale di quella nor­ma deontologica. Rubando un'espressione non sua, aveva più volte spiegato che per lui non si trattava affatto di un conflit­to di interesse, bensì di un conflitto di disinteresse, nel senso che non gliene fregava una benemerita mazza (una delle sue espressio­ni preferite) di nessuno dei suoi clienti, che avrebbero potuto tranquillamente scannarsi a vicenda, dato che l'unica circostanza rilevante era che tutti, senza alcuna eccezione, fossero disposti a saldare le sue onerosissime parcelle.

Del resto ripeteva con pazienza che "ogni giurista che si ri­spetti, prima di applicare la legge, deve interpretarla".

 Gordiani sapeva che il suo più illustre collega aveva una vera e propria fissazione per le segretarie straniere, che contribuivano a dare allo studio legale quel "tocco d'internazionalità" che non guasta mai e di cui la maggior parte della concorrenza romana era invece priva.

Pertanto, non rimase affatto sorpreso quando a rispondere alla sua telefonata fu una ragazza dalle evidenti origini latino-americane, che, almeno a giudicare dalla voce, doveva essere dav­vero un gran bel tocco d'internazionalità.

La segretaria lo folgorò, qualunque altro termine sarebbe ri­duttivo, con un sensuale accento esotico – da linea erotica – e, prima di disturbare l'abogado, evidentemente affaccendato in pro­fonde riflessioni sui suoi tanti processi e forse sulla vita in gene­rale, per prima cosa chiese a Gordiani per quale posizione fosse.

(…)

La triste verità era che Arturo Florestano, come molti suoi colleghi in carriera, aveva evidentemente un numero di clienti talmente spropositato da doverli in qualche modo "sminuzzare" e "filtrare". Comunque, quello doveva essere il suo giorno for­tunato perché la segretaria gli disse che l'abogado era en lo estudio e che glielo avrebbe passato imediatameingj.

Molto bene, pensò dentro di sé. Aveva superato il temibile "filtro rompicoglioni" riservato alla categoria dei più infimi or­ganismi telefonanti.

"Alessandro, che piacere sentirti!", esordì Florestano perfo­randogli il timpano destro. "Allora gli rompiamo il culo a quei pulciari all'udienza del cinque ottobre, eh?"

"Caro Arturo! Come stai?", urlò a sua volta Gordiani, dando così inizio a una conversazione da discoteca, visto che entrambi gli interlocutori gridavano come pazzi, come se dovessero so­vrastare con le loro voci la musica sparata a tutto volume dagli altoparlanti. "Sempre desideroso di rompere culi, eh?"

"Ah, ah, ah", ridacchiò di gusto Florestano, al quale l'immagi­ne di se medesimo nell'atto di sodomizzare qualcuno provocava con ogni evidenza una sensazione di grande ilarità, "me fai morì, Alessa'".

Per circa un secondo, Gordiani si augurò che quell'ultima af­fermazione potesse tramutarsi in realtà, tuttavia, sentendosi mol­to meschino, allontanò immediatamente quel pensiero.

"Arturo, quando possiamo vederci per parlare del processo?", gridò cercando d'introdurre l'argomento per il quale aveva telefo­nato, "il tempo stringe e, se sei d'accordo, volevo preparare una me­moria difensiva da depositare alla prossima udienza".

"Alessa', lo sai che de te me fido", chiosò Florestano, fiutan­do la possibilità di risparmiarsi un lavoraccio infame. "Fai pure come ritieni più opportuno. Facciamo così: butta giù qualcosa e poi, quando hai finito, me la mandi così ce la vediamo insieme. Che ne dici?"

Dico che sei un gran paraculo, rispose mentalmente Gordiani.

"Certo, Arturo, va bene", disse invece in modo più diplomati­co, "comincio subito a buttare giù qualcosa e tra qualche giorno ti mando tutto via mail".

"Grazie, Alessandro", rispose lui assumendo improvvisamen­te un tono da cospiratore, "allora siamo d'accordo: ci sentiamo tra un paio di giorni e perfezioniamo la memoria da depositare in udienza".

Tra un paio di giorni. Florestano aveva naturalmente anche sta­bilito quanto tempo Gordiani avrebbe dovuto impiegare per re­digere la memoria difensiva.

Se fosse stato un vero "Principe del Foro", avrebbe dovuto amichevolmente mandarlo a quel paese, senza tanti complimen­ti, con benevola e scanzonata simpatia: Artu'… lo sai che c'è: ma­vattenaffanculo!

Tutto sommato però due giorni erano proprio quanto Gor­diani riteneva necessario per preparare quella memoria, sapendo di poter contare anche sull'aiuto prezioso della sua principale collaboratrice, l'unica che aveva a essere sinceri, l'avvocatessa Patrizia Mori.

Quindi non disse nulla, salutò educatamente e riagganciò il telefono.

Senza contare che lui non riteneva affatto di essere un princi­pe del foro, ma soltanto uno degli oltre venticinquemila avvocati iscritti all'Ordine di Roma, un numero maggiore di quello di tutti gli avvocati dell'intera Francia.

Forse non proprio uno qualunque. Amava credere di essere un professionista abbastanza sopra la media. Magari non avrebbe mai raggiunto la notorietà di Arturo Flo­restano, ma questo non lo infastidiva affatto, semmai lo rendeva più consapevole.

L'importante per lui era riuscire sempre a dare il meglio di se stesso. Faccio quel che devo, succeda quel che può, era il suo motto.

L'aveva già fatto in passato e avrebbe continuato a farlo an­cora.

 

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