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La prima macchina dell'avvocato Peppino Lanza (da "Avvocà, non solo grazie")

caravita

L'Avvocato Peppino Lanza se ne partì dal suo studio di Napoli, a Chiaia, di primo mattino. Aveva comprato la macchina: non la macchina nuova, ma la prima macchina in assoluto. Erano gli anni 60, la guerra era ormai un brutto ricordo, il benessere aveva raggiunto molte persone. Dunque Peppino salì sulla sua 1100 Fiat, con il cambio al volante, e si avventurò alla volta di Roma: doveva discutere un ricorso in Cassazione.
Era luglio. Il sole si era appena affacciato in cielo, e già si capiva che sarebbe stata una giornata caldissima.

 L'Avvocato Francesco Caravita, Ciccio per gli amici, Ciccillo per gli amicissimi, aveva appena ricevuto a casa gli installatori del citofono.

Il citofono era una gran diavoleria: sembrava un telefono appeso al muro, ma in realtà serviva a comunicare con chi era giù al cancello di casa.
Non più urla e fischi da giù a su, aveva detto l'amministratore. E l'assemblea condominiale l'aveva gelato: questa è una casa signorile del quartiere Parioli, siamo a via Archimede (scandendo le sillabe e accompagnando ogni sibilo con un rapido colpetto della punta della elegante scarpetta in coccodrillo) le risulta che qualcuno abbia mai "fischiato"? aveva detto con un sibilo la vedova del Generale Petronio, drizzando sulle spalle quasi fosse il Generale redivivo.
L'amministratore, con una immediata virata di prua ed un colpo di genio altrettanto immediato, aveva chiesto scusa e aveva detto "Niente più portiere che corre su è giù per le scale".
L'idea di poter tenere lontano dalle proprie porte l'enorme Guido, portiere dello stabile, che effettivamente correva su e giù per le scale strizzato nella sua divisa grigia (non se ne era trovata una della sua misura, e naturalmente era escluso a priori che potesse essere tagliata da un sarto), aveva portato alla rapida approvazione della delibera.
E quel giorno di luglio gli installatori avevano montato il diabolico marchingegno
Il sole nel cielo continuava a salire.

Peppino Lanza, piccolo ma di voce stentorea, aveva fatto una gran bella discussione in Corte di Cassazione. Almeno così pensava il cliente, che era venuto apposta sino al Palazzaccio per sentire il suo avvocato parlare della sua vicenda. Si era perso nei grandiosi corridoi della Corte, si era ritratto impaurito quando un piccione, entrato da una finestra, aveva percorso gran parte del suo stesso itinerario volandogli sulla testa prima di uscire da un'altra finestra (finestra per modo di dire, erano enormi vetrate), era entrato trafelato nello enorme stanzone dove il suo avvocato, con la toga indosso davanti a tre vecchi giudici l'aveva zittito con un gesto perentorio prima ancora che potesse solo pensare di parlare, si era seduto e aveva visto deliziato il suo piccolo avvocato diventare sempre più grande fino a raggiungere dimensioni incredibili al momento culminante della sua arringa "Ecco perché si dice un gigante del diritto" aveva pensato.

"Avvocato, andiamo a mangiare la porto a pranzo". Ma Peppino aveva detto no: era tardi, quasi le due e mezza, voleva andare a casa, e prima voleva passare dal suo grande amico Ciccillo per salutarlo e per fargli vedere la macchina.
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Francesco Caravita, Ciccio per gli amici, Ciccillo per i pochissimi intimi che si potevano permettere la confidenza, aveva lavorato tutta la mattina, cesellando atti legali, scrivendo minute che la moglie avrebbe poi battuto a macchina (né Ciccillo né Peppino potevano immaginare che sarebbero arrivati un giorno i computers, e si sbrogliavano le faccende lavorative tra minute e sala macchine). Un bravo avvocato non aveva l'I Pad, aveva la Montblanc, la Rolls Royce delle penne stilografiche.
Poi aveva mangiato con la famiglia, interrogato i quattro figli sulle vicende scolastiche, rimbrottato uno, strigliato l'altro.
E finalmente era venuta la controra, quell'ora che qualsiasi avvocato, negli anni 60, dedicava al "riposino".
Faceva caldo, molto caldo. Il sole nel cielo era una palla di fuoco.
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Peppino Lanza fermò la macchina nuova esattamente davanti al numero civico 171 di via Archimede: erano gli anni 60, le macchine si contavano sulle dita di una mano, non c'erano problemi di parcheggio. Scese, vide la piastra del citofono, e capì in un lampo che Ciccillo aveva anche lui novità da contrapporre alla sua macchina nuova.
Cercò il nome CARAVITA e pigiò il campanello una, due, tre volte.
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Ciccillo si svegliò di soprassalto. La casa era avvolta dalla penombra, le persiane erano abbassate, tutti stavano sonnecchiando. E' difficile ora da capire, ma un pomeriggio estivo di 50 anni fa, senza computer, telefonini, televisioni, era qualcosa di quasi sacro, un momento magico di sospensione temporale.
"Il telefono, il citofono" biascicò, e si trascinò sino alla porta di ingresso. Afferrò la cornetta e disse "Pronto"
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"pronto, Ciccillo, sono Peppino, sono qui a Roma, ho discusso in Cassazione un successone"
"A ma che bella cosa, Peppino, io stavo dormendo, ma quando sei a Roma tu devi venire a trovarmi. Chiamami più tardi"
"Ciccillo…"
Click
L'avvocato Ciccillo Caravita aveva scambiato il citofono per il telefono, aveva condotto la conversazione come se fosse appunto telefonica e non citofonica, aveva riagganciato convinto di avere parlato al telefono ed era tornato a dormire.
Peppino Lanza, avvocato del foro di Napoli, uno dei pochi intimi che poteva chiamare Caravita con il diminutivo Ciccillo, capì al volo: rimontò in macchina e se ne tornò a Napoli.
Avrebbe spiegato a Ciccillo quello che era successo nella prossima conversazione telefonica, da distanza di sicurezza.

 

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