Se questo sito ti piace, puoi dircelo così
Francesco Saverio era il primo. Poi venivano Chicca, Rosetta, Enrichetta, Mariolina e Ninì, tutti figli dell'Avvocato Generale Distrettuale di Napoli.
Francesco Saverio non lo sapeva, ma avrebbe dovuto fare l'avvocato: poteva mai il rampollo maschio di una famiglia di giuristi fare qualsiasi altra cosa?
Ma lui non lo sapeva, e la sua infanzia fu felice. Anche in tarda età, gli brillavano gli occhi come a un bambino quando ricordava un episodio particolare: lui era sopravvissuto ad un attacco di paratifo, malattia all'epoca mortale, ed il padre per premiarlo di questa sua eroica impresa era un giorno entrato nella sua cameretta con un casco di banane. Un casco di banane: un premio eccezionale, a quei tempi, quando in fondo si poteva essere felice con poco.
Alternava però felicità ed infelicità: fu infelice quando lo mandarono in Collegio, lontano dalla famiglia, per motivi che non riuscì mai a capire. Non era una punizione, era uno stimolo a concentrarsi sullo studio, diceva il padre.
Fu felice quando tornò a casa, a 18 anni. Ma durò poco: fu dichiarato "volontario" dal regime, e a 20 anni, dopo un breve addestramento, parti come sottotenente dei Bersaglieri per un fronte durissimo: Grecia, poi Albania, poi Kossovo.
Ma lui coltivava un suo modo di essere felice, un distacco dal mondo che gli consentiva di trovare il modo di sorridere di tutto: e così, quando raccontava che lui e il suo plotone, sotto il tiro nemico in mezzo alla neve, avevano dovuto pisciare sulla mitragliatrice Breda, congelata, per poter rispondere al fuoco, tu insieme a lui ridevi, pensando quanto assurda può essere la vita.
Poi due anni di campo di concentramento, dopo il 43, prigioniero di guerra dei tedeschi, e poi alla fine il rientro in Italia.
Avrebbe voluto fare teatro, Francesco Saverio. Ma il padre non glielo consentì, e dovette farsi avvocato.
Ma anche così, la vita che da una parte gli toglieva, dall'altra gli regalò Olivetta, una giovane avvocatessa che lo amò subito, intensamente, orgogliosamente, ferocemente, e lo sposò con il cuore in tumulto.
Ecco, questo era Francesco Saverio, avvocato del foro di Roma, che ogni due anni - al rinnovo del Consiglio dell'Ordine - era costretto a promettere voti a una lunga serie di questuanti, che si ricordavano di lui e dei colleghi solo in quella particolare circostanza.
Francesco Saverio andava a votare con il suo sorriso fatto più con gli occhi che con la bocca, e poi raccontava: "Quando entri a Palazzaccio, ti abbracciano, ti baciano, ti giurano eterna amicizia. Quando esci dal seggio, neanche ti guardano più in faccia".
Francesco Saverio, piano piano, si chiuse nella sua torre d'avorio. Lavoro e libri, libri e lavoro. Leggeva, in continuazione, e non si curava più delle telefonate biennali "Carissimo Collega, sono Tal de' Tali, ho accettato, per spirito di servizio, la candidatura al Consiglio e ho bisogno del tuo illustre sostegno...."
No. Lo spirito di servizio no, per favore. Ditemi tutto, ma non questo. E andava a votare, con quel sorriso negli occhi e la faccia seria da illustre avvocato settantenne, lui, bambino felice per un casco di banane, fanciullo infelice in Collegio, ragazzo in guerra, prigioniero di guerra in mezzo alla neve, lui che in campo di concentramento aveva conosciuto Cindelar, detto "Carta Velina", un giocatore di pallone austriaco all'epoca molto famoso, e che aveva trovato modo di sorridere anche sotto le bastonate dei tedeschi.
Francesco Saverio era il primo.
Tutti gli articoli pubblicati in questo portale possono essere riprodotti, in tutto o in parte, solo a condizione che sia indicata la fonte e sia, in ogni caso, riprodotto il link dell'articolo.