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Con la sentenza n. 16044, il Tribunale di Roma, pronunciandosi sulla domanda di risarcimento danni avanzata da una coppia di coniugi per l'errata indagine prenatale eseguita sulla loro figlia, nata con malformazioni nonostante l'esame eseguito avesse rilevato l'assenza di anomalie cromosomiche, ha accolto solo in parte le richieste dagli stessi avanzate, ritenendo che "nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno cosiddetto da nascita indesiderata è onere della parte attrice allegare e dimostrare - con riguardo alla sua concreta situazione - la sussistenza delle condizioni legittimanti l'interruzione della gravidanza ai sensi dell'art. 6, lett. b), della legge 22 maggio 1978, n. 194, ovvero che la conoscibilità, da parte della stessa, dell'esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica.".
Nel caso sottoposto alla sua attenzione, il Giudice di Roma ha analizzato la responsabilità di una struttura sanitaria privata presso la quale una futura coppia di genitori, stante l'età avanzata della gestante, si rivolgeva al fine di effettuare indagini prenatali: all'esito delle stesse la struttura convenuta rilasciava apposito referto nel quale dichiarava l'assenza di anomalie numeriche o strutturali, ma, alla nascita, veniva riscontrato sulla bambina un difetto cromosomico invalidante.
I genitori adivano, quindi, il Tribunale, affinché – previo riconoscimento della lesione del diritto ad interrompere la gravidanza e dei danni morali conseguenti alla nascita di una figlia con inaspettate malformazioni – fossero risarciti tutti i danni subiti.
In particolare, gli stessi deducevano di non aver ricevuto le corrette informazioni sui limiti e sulle problematiche legate al prelievo amniotico, essendo così privati della possibilità non solo di scegliere se interrompere la gravidanza in caso di difetti genetici ma anche di prepararsi psicologicamente e materialmente all'arrivo di un figlio gravemente malato.
Con la sentenza in commento il Tribunale ritiene che la domanda attorea sia solo in parte fondata, specificando nella dettagliata motivazione quali eventi di danno siano meritevoli di risarcimento.
Il Giudice di prime cure, all'esito dell'istruttoria, riconosce la responsabilità della struttura, per la negligenza e l'imperizia mostrate nell'esecuzione della prestazione: nell'atto di consenso informato sottoscritto dalla paziente si legge che l'indagine – piuttosto che essere eseguita, come prescritto dalle linee guida, con una risoluzione non inferiore a 400 bande al fine di rilevare anomalie di estensione uguale o superiore a 10 mb – sarà "condotta ad una risoluzione non inferiore a 320 bande"; all'esito della ctu è infine emerso che, a causa della bassa risoluzione e della scarsa qualità del bendaggio, numerose anomalie non erano visibili, sicché la lettura di quel referto si presentava notevolmente differente da quello, correttamente eseguito, con la giusta risoluzione prescritta dalle linee guida.
Tanto vale, secondo il Giudicante, per rilevare un errore di predisposizione del consenso, in quanto la gestante – non essendo una esperta in genetica – non avrebbe potuto sapere che la risoluzione applicata, non essendo conforme a quella prescritta dalle linee guida, avrebbe potuto comportare un maggior rischio di diagnosi errata: non vi è stata, quindi, una corretta informazione sulla metodologia usata e sul grado di certezza raggiungibile scientificamente.
Tale vulnus del consenso certamente incide sulla possibilità della madre di acquisire consapevolezza su ciò che accadrà, modificare gradualmente le proprie aspettative e prepararsi psicologicamente anche, eventualmente, ricorrendo ad adeguato supporto psicologico al fine di affrontare più saldamente l'attendibile percorso di accettazione e preparazione all'accoglimento della neonata e così calmierare l'eventuale impatto psicologico della notizia.
Ne è derivato, come provato dalla madre, che l'errato referto le ha impedito di intraprendere quel possibile percorso di adattamento tale da prepararla all'evento ed all'accoglimento della malattia della figlia; inoltre, siffatta malattia, proprio perché inaspettata, le ha provocato un forte danno psicologico in termini di depressione a decorso acuto cronico: in relazione a questi eventi di danno il Tribunale riconosce, in favore dei genitori, il diritto al risarcimento del danno morale, da intendersi come pecunia doloris ovvero danno morale transeunte legato allo shock della notizia appresa al momento della nascita.
Oltre questo danno, quantificato in 30.000 euro a coniuge, a nient'altro hanno diritto gli attori: i risultati erronei dell'esame, infatti, non hanno leso il diritto della gestante ad interrompere la gravidanza e, pertanto, sotto tale profilo, le loro richieste non possono essere accolte.
Sul punto, la sentenza in commento precisa che solitamente l'amniocentesi – come nel caso di specie – si effettua oltre il terzo mese di gestazione, quando, per legge, non vi è più la libertà per la gestante di interrompere volontariamente la gravidanza, neanche nel caso in cui abbia espressamente dichiarato prima dell'esame che si sarebbe determinata in tale senso se avesse saputo delle patologie fetali. Difatti, l'art. 6 della legge 194/78 stabilisce che la IVG è permessa dalla legge anche dopo i primi novanta giorni di gravidanza solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna: il grave pericolo, pertanto,deve essere presente ex ante, a nulla rilevando che a seguito della nascita del bimbo affetto da patologie siano insorte sindromi psicologiche dovute allo stress emotivo e al dolore insorto.
Sul punto, la Suprema Corte (Cass. n.27528/13; n.25767/15) ha specificato che nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno cosiddetto da nascita indesiderata è onere della parte attrice allegare e dimostrare la sussistenza delle condizioni legittimanti l'interruzione della gravidanza ai sensi dell'art. 6, lett. b), della legge n. 194/1978 ovvero che la conoscibilità, da parte della stessa, dell'esistenza di rilevanti anomalie o malformazioni del feto avrebbe generato uno stato patologico tale da mettere in pericolo la sua salute fisica o psichica: nel caso di specie, la donna nessuna prova ha fornito sulla compromissione del suo stato di salute, quanto meno psichica, al momento della gestazione, né vi è stata allegazione di uno stato di fragilità emotiva e psicologica nel suo passato tale da lasciare presuntivamente ritenere che, appresa la notizia di malformazioni fetali, ciò avrebbe certamente ingenerato una progressione in senso negativo del suo stato psichico sì da porla in serio pericolo di vita.
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