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Va assolto il medico curante che omette la diagnosi perché non informato su tutti i sintomi

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Con la pronuncia n. 29083 dello scorso 22 giugno in tema di responsabilità colposa del sanitario che ometta la diagnosi, la Cassazione ha stabilito che "va annullata la sentenza della Corte di Appello che, riformando l'assoluzione pronunciata in primo grado non abbia adempiuto all'onere di confutare specificamente gli argomenti della prima sentenza" e, per l'effetto, ha assolto l'imputato sulla base del logico, preciso e completo accertamento condotto dal Tribunale, il quale aveva evidenziato come non fosse esigibile pretendere dal sanitario una diagnosi differenziale.

In particolare, la Corte di Appello dell'Aquila, in parziale riforma della sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Pescara, dichiarava la responsabilità ai soli effetti civili dell'imputato, nella sua qualità di medico curante, in ordine al contestato reato di omicidio colposo ai danni di una donna deceduta per una setticemia di origine batterica.

I giudici di secondo grado addebitavano al sanitario di avere colposamente omesso - dopo aver visitato la paziente, che lamentava rialzo febbrile e dolore alla schiena in conseguenza di una infezione batterica - di adottare le tecniche diagnostiche che minimamente si imponevano al fine di individuare la patologia mortale in atto: secondo la Corte Territoriale, se l'imputato avesse somministrato l'iniziale terapia antibiotica ad ampio spettro, sottoponendo nel frattempo la paziente ad accertamenti strumentali ed ematici, avrebbe quantomeno rallentato sensibilmente il progredire della sepsi, consentendo la diagnosi dell'infezione polmonare e l'individuazione dell'antibiotico specifico idoneo alla definitiva guarigione della signora. 

La difesa del sanitario, ricorrendo in Cassazione, sosteneva che le prove acquisite (derivanti anche da testimonianze rese da soggetti portatori di un rilevante interesse economico nella vicenda) non consentissero di affermare che l'imputato fosse stato posto a conoscenza di sintomi che dovevano indurlo a sottoporre la paziente alla terapia antibiotica e agli accertamenti menzionati: in occasione della visita domiciliare, la donna riferiva al proprio medico curante solo dolore lombare e non il blocco della funzione urinaria; i sintomi più gravi si verificavano solo nei giorni successivi.

In secondo luogo si rilevava che neppure i sanitari della clinica dove la signora era stata ricoverata si erano resi conti dell'infezione polmonare: gli stessi, visitando la paziente, avevano riscontrato solo un sintomo riferibile a problemi al rachide lombo-sacrale e – considerata l'assenza di altri malesseri – decidevano di ricoverare la donna nel reparto di ortopedia.

La Cassazione condivide le censure formulate dall'imputato, ritenendo che l'impugnata sentenza, nel riformare in condanna la sentenza assolutoria di primo grado, non ha rispettato l'onere motivazionale di supportare la decisione con un corredo argomentativo rispettoso dei principi in tema di motivazione rafforzata.

In punto di diritto, gli Ermellini specificano che la sentenza di appello, che comporti la totale riforma di quella di primo grado, deve seguire un percorso motivazionale estremamente rigoroso, volto a dimostrare l'incompletezza, o la non correttezza, o l'incoerenza delle argomentazioni della pronuncia impugnata; laddove il giudice di secondo grado prospetti ipotesi ricostruttive del fatto alternative a quelle ritenute dal giudice di prima istanza, non può apoditticamente limitarsi a formulare una mera possibilità, disancorata dalla realtà processuale, ma deve riferirsi a concreti elementi processualmente acquisiti. 

Risulta essenziale, quindi, che il giudice di appello – nel riformare la sentenza impugnata – analizzi non solo le censure dell'appellante, ma anche il giudizio espresso dal primo giudice: la sua deve essere, pertanto, una "motivazione rafforzata", vieppiù alla luce del canone dell' al di là di ogni ragionevole dubbio codificato dall'attuale art. 533 c.p.p..

Alla luce di tanto, la Cassazione rileva come, la Corte distrettuale non ha confutato specificamente gli argomenti della prima sentenza, in ciò incorrendo in un evidente vizio motivazionale.

Ed, invero, il giudice di primo grado – con ampia e corretta motivazione, agganciata agli elementi probatori emersi nel corso dell'istruttoria – aveva correttamente valutato, ex ante, che nessun addebito colposo potesse essere mosso al medico in relazione all'adeguata diagnosi differenziale: il sanitario, infatti, non era stato informato di tutti i sintomi della donna e l'aveva visitata quando la stessa ancora non accusava malesseri tali da far ritenere che fosse in corso una infezione.

A fronte di siffatto ampio percorso argomentativo, la Corte di appello ha fornito una carente ed apodittica motivazione.

La Cassazione censura, soprattutto, la parte della sentenza in cui muove all'imputato un addebito omissivo (e cioè essenzialmente quello di non aver immediatamente prescritto alla paziente antibiotici e accertamenti strumentali, come le linee guida, in casi analoghi, prescrivono di fare) senza spiegare sulla base di quali elementi, secondo una corretta valutazione ex ante (e non ex post), il medico avrebbe dovuto avere contezza, all'atto della visita, della (possibile) infezione batterica in atto nella paziente: la Corte territoriale, in altri termini, ha dato per scontato ciò che costituisce l'essenziale presupposto dell'addebito mosso al sanitario, ovvero la conoscibilità da parte del medesimo della condizione morbosa da cui è poi derivata la morte della paziente.

In conclusione, non essendo stata accertata la responsabilità del medico al di là di ogni ragionevole dubbio, la sentenza impugnata è stata annullata, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello. 

Nome File: Cass.-29083-2018
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