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Violenza o sesso di gruppo? Tanti dubbi e troppa esposizione mediatica per una squallida vicenda di disagio giovanile
Ci ha pensato il tribunale del Riesame a demolire la verità mediatica su quel fattaccio dello stupro di gruppo alla Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano che, per un mese, ha tenuto banco su giornali e salotti tv. Le motivazioni dei provvedimenti che hanno rimesso in libertà il terzetto di presunti violentatori tracciano un solco profondo sul racconto fin qui ascoltato. Niente violenza, niente coercizione, niente spintoni in ascensore, niente abbandono dopo il sesso, niente disperazione della ragazza. Ma scene «completamente prive di drammaticità», che inquadrano quattro amici (tre ragazzi e una ragazza), che si incontrano, si salutano, ridono, scherzano, fumano, consultano il cellulare, prima di cercare un luogo in cui appartarsi, un ascensore guasto buono per i loro scopi; e che consumano rapporti sessuali, che decidono poi di ritornare tutti insieme verso i binari: sempre in quattro, lei con loro, senza tensione, senza disperazione. Le telecamere a circuito chiuso della stazione mostrerebbero immagini non compatibili, secondo i giudici, con quelle successive a uno stupro. Un quadro che consente al Riesame di bollare la ragazza come una «bugiarda patologica» (definizione che la 24enne dà di se stessa ai medici); bipolare, con un vissuto sessuale e familiare caotico, problematico, sempre al centro delle sue terapie.
Un senso di acuto smarrimento ci prende e ci scaraventa in un tumulto di pensieri confusi: ci eravamo appassionati, arrabbiati, protesi nella sofferta solidarietà per quella povera ragazza violentata da un gruppo di giovinastri, ascoltandola e sentendola vicina nel suo smarrimento avvolto dalla paura e adesso sei giudici ci dicono, in buona sostanza, che mentiva. Nessuna violenza, nessuno stupro. Tutt'al più si sarebbe trattato di una squallida ammucchiata, sesso di gruppo di dubbio gusto, ma ai tre ragazzi, al limite, si può "solo" contestare di non aver saputo tenere a bada gli ormoni. Una storia che lascia un velo di tristezza quando, dalle motivazioni del dispositivo, si apprende che la 24enne soffrirebbe di disturbi della psiche, ma non tali da renderla vittima inconsapevole di un'aggressione a sfondo sessuale. Una giovane diplomata, che frequenta un laboratorio teatrale e «in possesso, lo si ricordi - scrivono i magistrati - addirittura di capacità intellettive superiori alla norma». E poi quei referti medici che, secondo i giudici, «hanno escluso l'esistenza di segni ecchimotici ed escoriazioni nelle zone genitali, anali nonché di lesioni o alterazioni in orofaringe». La visita ginecologica a cui la giovane si è sottoposta confermerebbe «l'assenza di ecchimosi e/o escoriazioni genitali, riscontrando solo un arrossamento». Un problema dermatologico, secondo i giudici, non riconducibile a una violenza.
In tv la presunta vittima ha raccontato che sognava di studiare psichiatria «per aiutare chi ha i problemi che ho avuto io». E ci propina l'idea, addirittura, di mettere in piedi una fondazione per proteggere le donne vittime delle violenze, tema di stringente attualità, con l'avvocato di fiducia sempre al suo fianco, per integrare il racconto, riempirlo di dettagli, governarlo. Diceva che aveva scelto la strada delle telecamere per proteggersi dalla paura, paura di rappresaglie, quando i primi due erano tornati liberi, liberi di vendicarsi delle accuse e del carcere subìto. Insomma, la ragazza non sta bene con la testa e non ha detto la verità. Ovvero: ha mentito. A noi non rimane che interrogarci sulla delicatezza della materia e sulla tempistica del racconto: l'arresto del gruppetto di balordi - il cui comportamento andrà eticamente riletto – in un certo senso ha autorizzato il deflagrare del fronte accusatorio. Ci si deve interrogare anche sul ruolo dell'avvocato della ragazza, e se non fosse stato più opportuno impedirle di affrontare gli studi televisivi per proteggerne la riservatezza e la fragilità. Il doloroso disagio della 24enne e i suoi racconti pubblici ci lasciano confusi e interdetti, tuttavia la drammaticità delle sue testimonianze non aiuta la causa della violenza sulle donne che dilaga e sconvolge, ma deve indurre ad un uso cauto e ragionato dei media. Questa volta siamo rimasti tutti imprigionati negli schemi mentali; ci rimangono molti dubbi e una sottile, ma inconfessabile, delusione.
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«Di cosa ti occupi?». Una domanda che ci si sente rivolgere spesso. «Scrivo», la risposta audace del sottoscritto. «Ma no, intendevo dire: che lavoro fai?». Ecco, questa è la premessa. Sono veneto, di Jesolo, fin dal lontano 1959. Dopo un intenso vagabondare che negli anni mi ha visto avviare diverse iniziative imprenditoriali in Europa, ho messo momentanee radici a Busto Arsizio. Il mio curriculum include l’esperienza della detenzione, e non ho alcuna intenzione di nasconderlo perché la considero una risorsa che mi appartiene e mi ha arricchito. No, non mi riferisco ai soldi… Sono attento alle tematiche che riguardano la detenzione in ogni suo aspetto, nella convinzione che si possa fare ancora molto per migliorare il rapporto tra la società civile e il carcere. Ebbene sì, per portare a casa la pagnotta scrivo per alcuni periodici, tra cui InFamiglia, DiTutto, Così Cronaca, Adesso, Sguardi di Confine e Sport Donna occupandomi principalmente di sociale. Ho pubblicato Pane & Malavita per Umberto Soletti Editore. Amo la musica, la lettura e la cucina. Sono nonno e mi manca tanto il mare.