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Con la sentenza n. 40 dello scorso 8 marzo, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309/1990, (TU stupefacenti), ha statuito che è sproporzionata la pena minima di otto anni prevista per i reati non lievi, così dichiarando l'illegittimità costituzionale del surriferito comma là dove prevede come pena minima edittale la reclusione di otto anni invece che di sei.
Il caso sottoposto all'attenzione della Corte Costituzionale prende avvio dalla condanna di un uomo ex art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, per l'illecita detenzione di circa cento grammi di cocaina, destinati in via prevalente alla cessione a terzi.
La Corte di Appello di Trieste – qualificando il fatto di reato all'interno della fattispecie ordinaria di cui all'art. 73, comma 1, del citato d.P.R., e non come la più mite fattispecie di «lieve entità», di cui all'art. 73, comma 5 – sollevava questione di legittimità costituzionale, per contrasto del comma 1 con gli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, nella parte in cui prevede la pena minima edittale di otto anni anziché di quella di sei anni introdotta con l'articolo – dichiarato nel 2014 incostituzionale – 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272.
Più precisamente, il Giudice remittente denunciava una violazione dell'art. 3 Cost. in quanto la disposizione censurata avrebbe delineato un trattamento sanzionatorio irragionevole tenuto conto che – sebbene non sia sempre netta la linea di demarcazione «naturalistica» fra la fattispecie «ordinaria», di cui al comma 1, e quella di «lieve entità», di cui al comma 5 – ciononostante il «confine sanzionatorio» dell'una e dell'altra incriminazione è invece eccessivamente e irragionevolmente distante (intercorrendo ben quattro anni di pena detentiva fra il minimo dell'una e il massimo dell'altra).
Infine, il giudice a quo sosteneva che la predicata irragionevolezza avrebbe contrastato con gli artt. 3 e 27 Cost., poiché la previsione di una pena ingiustificatamente aspra e sproporzionata rispetto alla gravità del fatto avrebbe pregiudicato la funzione rieducativa.
La Corte Costituzionale ritiene che la questione sia ammissibile e fondata, precisando come il suo l'intervento non è ulteriormente differibile, posto che è rimasto inascoltato il pressante invito rivolto al legislatore affinché procedesse rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi.
La Consulta accoglie le censure formulate in relazione all'irragionevolezza e alla sproporzione del trattamento sanzionatorio.
La Corte motiva tale irragionevolezza partendo dall'analisi storica delle disposizioni normative.
L'originario art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 differenziava il trattamento sanzionatorio dei reati aventi ad oggetto le droghe "pesanti" (comma 1, con pena da 8 a 20 anni di reclusione) rispetto a quello dei reati aventi ad oggetto le droghe "leggere" (comma 4, con pena da 2 a 6 anni di reclusione); la stessa distinzione tra droghe "pesanti" e "leggere" ( con punizione da 1 a 6 anni nel caso di droghe "pesanti" e da 6 mesi a 4 anni per droghe "leggere"), era riproposta anche per i fatti di lieve entità, puniti al comma 5 del medesimo art. 73 quale circostanza un'attenuante ad effetto speciale.
Successivamente, l'art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 sopprimeva la distinzione fondata sul tipo di sostanza stupefacente, comminando per qualsiasi sostanza la pena della reclusione da 6 a 20 anni.
Nel 2013 veniva sostituito il comma 5 dell'art. 73, sicché il fatto di lieve entità è divenuto fattispecie autonoma di reato, mentre con la legge n. 79 del 2014 si è ridotto il limite edittale massimo della pena detentiva 4 anni di reclusione.
Con la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 è ritornata ad applicarsi la disposizione dell'originario art 1 del comma 73 sicché, a seguito di questa stratificazione di interventi legislativi e giurisprudenziali, si è creato un divario tra il trattamento sanzionatorio del fatto di non lieve entità da quello del fatto lieve, senza che il legislatore abbia provveduto a colmarla per tutti quei casi che si collocano al confine fra le due fattispecie di reato.
Proprio per tali fatti non è giustificabile un così vasto iato sanzionatorio, evidentemente sproporzionato sol che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità (comma 1) è pari ad 8 anni, ovvero al doppio del massimo edittale del fatto lieve (comma 5), oggi fissato in 4 anni: l'ampiezza del divario sanzionatorio rischia di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte, con conseguente violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., oltre che del principio di rieducazione della pena di cui all'art. 27 Cost. (considerato che, una pena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa).
Alla luce di tali considerazioni, la Corte espressamente afferma che non può essere ulteriormente differito l'intervento di questa Corte, chiamata a porre rimedio alla violazione dei principi costituzionali evocati, con conseguente accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 ...nella parte in cui prevede un minimo edittale di otto anni…
Passaggio immediatamente successivo è quello di determinare quella che possa essere la misura minima della pena per i fatti non lievi.
Sul punto la Corte specifica che l'ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale che riguardano l'entità della punizione risulta condizionata dalla presenza nel sistema di previsioni sanzionatorie che, trasposte all'interno della norma censurata, garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore (sentenza n. 233 del 2018).
Il giudice remittente indicava, quale misura minima, quella pari a sei anni di reclusione, ricavando tale dato da previsioni già rinvenibili nel settore della disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti.
La Consulta ritiene che tale indicazione sia corretta: nei diversi interventi normativi il legislatore ha sempre indicato in 6 anni la misura adeguata ai fatti "di confine", che nell'articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi.
Si pensi, a titolo esemplificativo che l'indicazione dei sei anni ricorre nel comma 4 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto le sostanze di cui alle tabelle II e IV, nell' art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 quale misura della pena minima per i fatti non lievi; sempre in sei anni il testo originario del d.P.R. n. 309 del 1990 aveva altresì individuato la pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe "pesanti".
Alla luce di tanto, si ritiene appropriata la richiesta di ridurre a sei anni di reclusione la pena minima per i fatti di non lieve entità al fine di porre rimedio ai vizi di illegittimità costituzionale denunciati.
La Corte, in conclusione, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni, con la specificazione che la misura sanzionatoria indicata resta soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore, sempre nel rispetto del principio di proporzionalità.
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