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Straining: ingiustizia del danno anche se alle difficoltà relazionali contribuisce la condotta del lavoratore.

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 Abstract.

Con la sentenza n. 15957/2024, la sezione lavoro della Corte di cassazione ha annullato con rinvio la decisione con la quale la Corte d'Appello di Bologna aveva escluso la ricorrenza sia di una fattispecie di straining valorizzando la circostanza, emersa nel corso dell'istruttoria, per cui l'ambiente stressogeno era alimentato anche da condotte imputabili alla medesima ricorrente.

Il Supremo Collegio, dopo aver rammentato la giurisprudenza formatasi sull'articolo 2087 del codice civile e sul concetto di mobbing e straining in generale, ha sottolineato l'importanza che la normativa internazionale delle convenzioni ONU, OIL, e CEDU assumono ai fini della corretta applicazione dell'articolo 2087 del codice civile.

In particolare, nella sentenza in commento si afferma che la definizione del termine "salute" cui fa riferimento l'articolo 2087 de codice civile è quella originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità OMS, cui si riferiscono tutte le altre Carte internazionali in materia e che è stata espressamente riprodotta nell'art. 2, comma 1, lettera o) del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, ossia quella di "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale".

Da tale impostazione, deriva, dunque, sempre secondo la sentenza, l'irrilevanza dell'eventuale coinvolgimento nelle azioni conflittuali della stessa parte che invoca la tutela, anche se dimostrata giudizialmente, a condizione, tuttavia, che sia parimenti dimostrata la sussistenza di una ambiente lavorativo caratterizzato da un considerevole degrado dei rapporti professionali.

I principi di massima.

Un "ambiente lavorativo stressogeno" è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell'art. 2087 cod. civ. . 

Per l'applicazione dell'art. 2087 cod. civ. si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41 Cost.) ovvero per il dato di lavoro pubblico le esigenze organizzative e i limiti di spesa. L'elemento di base di questa operazione è rappresentato dalla adozione come definizione di salute non è quella di

"semplice assenza dello stato di malattia o di infermità", ma quella di "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale" originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia − a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità − e che è stata espressamente riprodotta nell'art. 2, comma 1, lettera o) del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

Fatto.

Un'insegnante si rivolgeva al Giudice del Lavoro per ottenere il risarcimento del danno subito in conseguenza di condotte reiterate nel tempo da parte del dirigente scolastico e consistite in comportamenti ostili di carattere discriminatorio e persecutorio, da cui era conseguita la propria mortificazione morale e l'emarginazione nell'ambiente di lavoro.

Il ricorso veniva rigettato sia in primo che in secondo grado, reputando, i giudici del merito, che le condotte, sebbene provate, rientrassero in un contesto lavorativo caratterizzato da difficoltà relazionali e da un generale degrado dei rapporti professionali imputabile anche alla lavoratrice.

La lavoratrice si rivolgeva, dunque, alla Corte di Cassazione, chiedendo l'annullamento della sentenza resa dalla Corte Territoriale sulla base di due motivi:

- la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32 e 35 della Costituzione,

- la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2049 del codice civile e 115 del codice di procedura civile, in relazione all'art. 360, comma primo, n. 3 del codice di procedura civile.

La decisione della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, affermando la contrarietà della sentenza impugnata ai principi che regolano la materia.

In particolare, secondo i giudicanti, nell'escludere la configurabilità di un danno ingiusto, è stato valorizzato il dato per cui le difficoltà relazionali erano imputabili anche alla lavoratrice, senza, però, considerare che l' "ambiente lavorativo stressogeno" è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, pur se non necessariamente viene accertato l'intento persecutorio che unifica tutte le condotte denunciate (come richiesto solo per il mobbing) ancorché apparentemente lecite o solo episodiche.

La Corte ha ricordato che, per consolidato orientamento, la nozione di mobbing (come quella di straining) è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 del codice civile e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro.

 Dunque, prosegue la sentenza, è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio nei confronti della vittima, a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell'ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell'art. 2087 del codice civile e, quindi, di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all'art. 1225 del codice civile per il caso di dolo; è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie.

Un "ambiente lavorativo stressogeno" è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell'art. 2087 del codice civile.

Quanto al contenuto del diritto fondamentale alla salute salvaguardato dal già menzionato articolo 2087 del codice civile, conclude il provvedimento in commento, si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e, dunque, adottare come definizione di salute quella di "stato di completo benessere fisico, mentale e sociale" originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia − a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità − e che è stata espressamente riprodotta nell'art. 2, comma 1, lettera o) del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.

 

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